articoli e altri scritti

 

 

 

  home  chi sono      il magazzino   teatropoeticail blog

 

 

 

alcuni articoli e scritti su periodici e web dal 2005

(rintracciati, senza cronologia) 

 

 

 

INDICE

 

attese

 

buroGrazia

"non restate, perciò, donne ingegnose"

 

media-zione

la grande bellezza o la grande lentezza

 

il male

le donne

 

al banco di un bar

accattatavelle

 

la parola

la donna ingombrante

 

un anziano avvocato

fermata del bus

 

la fiolosofia zen

si parla di politica

 

il potere, morale e culturale

ho incontrato personaggi di vatia natura

 

la società vegetale

perchè una società vada bene

 

magistrati e avvocati

una proposta

 

Olympe de Gourges

patafisica del diritto

 

una geriatria della democrazia

il diritto dei giusti

 

reato di stalking

estenuanti attese

 

apartheid e "tribunali speciali"

donne e dintorni

 

protezione alle parti offese

alla cena di Babette

 

imitazione

l'ultima virtù

 

astensione

prove di "fine del mondo"

 

etica del processo civile

la classe è acqua

 

parole

i bugiardini della medicina

 

lettera al signor p.f. (potere forte)

tasse psichedeliche

 

l'effetto farfalla

la casa di Jessica e l'applauso

 

non sono candidabile

avvocatura donna e discriminante

 

Bok Dong e le altre trecentomila

popolo e populismo

 

la libertà della corruzione

trompe-l'oeil

 

la pasta italiana

un lunedì dell'anno 2017

 

 

 

 

 attese

 

(Attese.

Sfrangiate nelle cronache che raccontano corruzioni. Nei talk show dai titoli accattivanti  dove  anche la speranza affonda  in assuefazione del linguaggio. Blindato da opportunismo.

Una voce, tra teatro e vita, che abbraccia simbolicamente tutti quelli che avrebbero qualcosa da dire. Ma, che sono costretti a rinunciarvi.)

 

La giustizia mi deve una spiegazione.

Deve spiegarmi perché applica un salvacondotto preventivo. Una assoluzione. Occultando  il peccato. Con la complicità  di chi fa da palo sul luogo del crimine. O di  chi applica  il disservizio per altre cause. Una sorta di cura omeopatica  allo sbando della giustizia, per modificarne le regole ? Per zittire i dissenzienti? Per azzoppare i dissidenti? Per  creare i disordini che servono ai trafficanti? Per continuare a spacciare  le loro regole e i loro intrighi?

Questi interrogativi si leggono ogni giorno, dietro le notizie. Le risposte sono devastanti, per chi sa leggere.

Ho l’immagine logorata. Il  mio fisico  si logora. Gli attacchi di panico sono  ravvicinati.

Minati i miei elaborati di sempre: “la giustizia è lenta ma ci arriva”. Sono sconfessati dalla giustizia  che guarda in alto o in basso. In alto,  con riverenza. In basso,  per fingere di non guardare in faccia nessuno. Infatti,  guarda la nuca dei poveri cristi;  nell’atto di rubare una gallina.

Sono per strada. Senza casa. Poco fa,  due  avvocati, un procuratore speciale, quattro agenti di polizia in turno,  tre ufficiali giudiziari  e, ancora, un fabbro, un medico, quattro paramedici – con autoambulanza –, hanno curato ed assistito al nostro allontanamento.

Quante gente! Tutto mi è apparso come una missione militare.

In verità, non mi sono difesa come potevo. Come dovevo. Ho la scusa di essere stata otto mesi invalida. Rottura dell’ischio pubico e dell’omero. Per una rapina.

Siamo andati via con una piccola borsa. Un ricambio di biancheria. E le medicine.

Lui si è persino inginocchiato. Si è umiliato. Per avere sei giorni di differimento. È malato. Loro lo sanno. Ma hanno preferito sigillare il suo studio.  Non potevano. Ma lo hanno fatto.

Il giudice ha letto poco i documenti. O, ha voluto leggerli male. L’ho compreso.

Hanno determinato una situazione che rende difficile, impossibile, portare a termine la trattativa. Senza casa. Senza studio.  Senza denaro.

Sarei dovuta andare a verificare un incontro pacificatore. Così ne sono impedita. Lo sanno.

Ma, a pensarci,  non c’era nulla da pacificare.  In effetti  l’intenzione era di ottenere l’archiviazione. E, allora,  ritirare, annullare ogni  sentiero  di pelosa magnanimità.

Così è  stato.

L’archiviazione? Non ci sono reati. La parte offesa, cioè io,  ha dato origine al contenzioso! Come dire a una donna violentata: “È colpa tua!” . Perché porta la minigonna, o è truccata,  o è rincasata tardi, o non ha preso un taxi,  o perché non ha,  almeno,  un cavaliere. Perché non ha nessuno che la difenda. Che alzi la voce.

Forse, al massimo,  qualcuno le dirà: “Lei ha passato un guaio!”. Senza il rinvio a giudizio del reo. Bensì,  una condanna ad una disperazione senza fine.

Per la  mia vicenda  io ho ascoltato dirmi: “Lei   ha   passato un guaio!”.

Mi chiedo: le persone che alzano la voce è perché hanno il potere di farlo? Il potere morale di esigere un comportamento adeguato? O, piuttosto, la capacità di far valere fatti sottostanti? Conoscenze sottili di colpe o di comportamenti per i quali l’altro non può andare fiero?

Quando è cominciato tutto? Me lo chiedo continuamente.

Una distrazione; certamente. Una lettura superficiale. Una  motivazione più che preventiva. Una bestialità allo stato brado. Perché  i fatti sono attuali, attualissimi, documentati e sacramentati.

Il punto di domanda  doveva essere: perché fate false attestazioni negli atti?  Perché  su queste false attestazioni  state devastando la vita di una   persona? Perché  continuate  a praticare  la malagiustizia  come una cura  per le vostre malattie?

Il mio avversario continua  a offendere.

Usa un duplice binario. Una doppia  strategia. Studiata a tavolino nei minimi dettagli.

Un linguaggio, quello ufficiale,  rivolto ai magistrati. logorroico, capzioso, occhialuto: esteso in centinaia di pagine. Un linguaggio di enormità  giuridiche, capace di annullare i diritti. Non so quanto altro  sussurrato.

E, poi, un fraseggio di offese personali, di calunnie.

In una contestualità  che dovrebbe lasciare  perplessi, attoniti , sbalorditi.

Dire che Dante non sia stato un poeta, che Kant  non sia stato  un filosofo,  che Hitler  non abbia sterminato gli ebrei e che tu sei un’assassina o quantomeno una pazza.  Ed essere creduto. E vaneggiare  che il codice di procedura  civile si può applicare; ma, anche,  non applicare. Che la deontologia  professionale si può applicare; ma, anche,  non applicare. Tutto, ancor peggio, disattendere, o  completamente ignorare.

Con l’esercizio di un potere sleale, assoluto, occultato.   

La pulizia della ferita era sua. Come, sua, la necessità di nutrirci. Allora,  cercava di stupirmi. Un piatto semplice che diventava una creazione.

Mi lasciava sola, per ore e ore. Per distruggere al cavalletto le sue ansie. Mai ammesse. Lo so.

Le persone nel palazzo diventarono invisibili. Mentre ero seduta in poltrona. Per mesi. Ma non furono invisibili le fogne scoperte. Da dove, al buio, ma anche di giorno,  uscivano fetori e topi enormi.

Non ho una sigaretta. E non abbiamo una lira. Né per comprarle, né per andare da qualche parte a dormire. Non abbiamo nulla. Se non due mutande, spazzolini, lamette, schiuma da barba.

Ho sempre avuto difficoltà ad organizzarmi. Ora ho la sensazione di essere come gli sfollati. O, peggio, come gli ebrei. Che, forse, speravano, veramente,  di lavorare nei campi di lavoro. Non immaginavano le camere a gas.

Hanno atteso cinquant’anni per vedersi pagate le polizze vita. Recentemente. A forfait. Per una esistenza.

Imperi di sangue e lacrime e morti e coscienza sporca.

L’ufficiale giudiziario  “ufficioso” -quello che controllava le operazioni, il buon esito dell’operazione sloggio-  lo incontro nei luoghi  della giustizia.

Mi offende riconoscendo le troppe  anomalie: “Li avete denunciati? Dovete denunciarli! Non si effettua uno sfratto così! Io non lo avrei fatto!”.

Ma, non eri presente? Non hai sentito? Non hai visto? Non hai partecipato?   Gli rispondo che la denuncia è stata archiviata.

Non gli parlo delle archiviazioni morali. Quelle che rendono gli uomini,  i praticanti della giustizia,  indegni di accostarsi al tempio.

Conosco il gip. È una persona perbene. Andrò a rappresentare le tue ragioni, già evidenti nella opposizione. Ci andrò domani.”.

Già, domani! Poi,  posdomani; poi, “Non ho avuto tempo. Sai? … ero impegnato in quel processo …  Sai? …   quello finito sui giornali.”.

Gli avvocati  prendono prestigio dal prestigio criminale dei clienti.

Si pavoneggiano. Eccoli:   il difensore del politico, quello del malaffare, quello dell’infedele della fedi, poco importa se  delle chiese o delle istituzioni.

Serve servire  il potere. Parteciparvi, esserci.

Dopo giorni di prudente fiducia mi informo: il procedimento è stato archiviato. Da tempo. Troppo tempo ormai. La giustizia si è avvalsa, stavolta velocemente, della facoltà di non rispondere.

Vaghiamo. Smarriti. Con la nostra borsettina con mutande e con quella con  i farmaci salvavita. Ne prende tanti che sembra  un lungo viaggio transoceanico.

“restare in mutande”. È stato, forse,  coniato  da chi  viveva situazioni drogate  da eventi. Eventi sceneggiati,  nei minimi dettagli,  da falsi registi,  da falsi  procuratori, da falsi giuristi.. Da falsari che usano la vita degli altri  come merce di scambio.

Ci  cerca con lo sguardo.

Forse ha seguito l’odore del nostro sconforto. L’odore frammisto della paura, del buio, dell’incognita.

Abbiamo  deciso di andare in sala di attesa alla stazione. O in un ospedale. Sperando in un ricovero. O, almeno, in una lunga attesa al pronto soccorso. Così passa la notte.

Ci intercetta. Si avvicina: “Mi dispiace! Per quello che posso  vi prego di accettare  un mio personale, modesto,  contributo.”.

Compro  le medicine,  due panini  e caramelle.

Mastico fiele dalle nove di stamattina. Con la convinzione che si tratti di un incubo.

Mi illudo che sia la scena di quei films  dove lo spettatore immagina  l’assassino  dietro una tenda. Pronto  a ghermire il protagonista ignaro.

Entra.  È buio. Le luci non si accendono. Improvvisa una esplosione  di cori: “tanti auguri a te! tanti auguri a te!”. Con applausi e risate e  l’apparizione di candele,  piazzate su una torta panna e cioccolata.

Invece, l’incubo continua. Il buio è reale. Il silenzio è reale. L’assassino  è all’agguato. Subdolo. Scortica la tua vita  senza uccidere,  fisicamente. Ci penserà  qualcun altro. Ci penserà il caso o  la sorte o la salute minata.

Serve tempo agli assassini. Il tempo che corrode. Che  scava gallerie. Che indebolisce  la speranza. Che porta  l’oblio nelle  coscienze  sporche.

Quelle della   parola  riprogrammata all’infinito. Ritirata,  abusata, concessa, rinnegata e poi, ancora,  rinnegata. Poi, ancora, riformulata  adescante, perversa. Pronta per un’altra strategia.

La mia parola è già sfigurata. Fuori dai canoni. Come quella dei predicatori a ruota  libera. Che parlano del peccato, senza assoluzione. Della vergogna, senza rossori. Della pietà, senza sguardi. Dell’inferno,  immaginato solo dai veri peccatori.  

Il deserto. Ancora una volta. “Sì rimanete. Ma solo fino a dopodomani. Altri pagheranno di più,  specie in prossimità del  Natale”.

Ancora, per strada.

Metto da parte orgoglio e prudenza e affondo io stessa la lama  mortale. Pochi giorni e, poi,  l’ultimatum: “Andate via!”.

Ma non disturbiamo. Non mangiamo. Quasi non respiriamo e dormiamo nella poltrona del cane. Con gli effluvi che permangono, di notte.

No,  andate via!”.

Rileggo nella memoria le motivazioni  di un’altra archiviazione: “… si applica la prescrizione essendo i fatti risalenti al 2003.

Ma ci sono lavori in corso!

Ho rubato un vaffa a un cancelliere. Un ferma-immagine impresso nella mente.

Gli chiedo  del procedimento. Di quando il pm potrebbe ricevermi.

Mi  risponde di malavoglia. Ambiguo, stufato, concedente.

Mi allontano voltandogli le spalle. Un’ultima domanda. Mi giro e colgo un silenzioso  vaffa. Il volto e le labbra,  con un ghigno  liberatorio, seguono le linee tracciate  dalle  braccia alzate. Che annaspano, disegnando  il nulla.

Rifletto, collego, analizzo.

In seguito, per onestà  di ragionamento,  osservo,  critico, separo i fatti. Un esercizio sterile. Perché  mi trovo a combattere contro  tante cellule  che hanno un unico obbiettivo:  corrodere le altre cellule sane.

Amplifico,  allora,  amplifico il ragionamento. Così mi rendo conto che è una scelta di campo  nella giustizia,  nell’ambiente,  nella  cultura, nella socialità.

Corrompere per dichiararsi salvatori e  proporsi  per cambiare qualcosa. Che si è contribuito a guastare. Sono le ultime scoperte della odiosa sopraffazione che usano manigoldi seriali.

Nonostante il freddo  camminiamo,  macinando  chilometri.

Il vento sferzante ci toglie il respiro. I pochi spiccioli per il treno stasera. Forse possiamo passare per il supermercato a comprare le stelline. Il caldo di un tetto imprestato. Un miraggio.

È un piano terra, o meno. Senza aria. Umido. Fatiscente.

Siamo isolati perché il cellulare non ha campo. Tremo. Per un malore di notte. Per una emergenza. Per una  risposta necessaria  e obbligata. Che rimane, invece,  muta.

Ho i piedi gonfi. Con  un  rossore strano  come se li avessi esposti alle fiamme. Sì! Forse siamo all’inferno. Con la testa in giù e legati per  i piedi.

La sera faccio manovre che  spero mi rassicurino. Mi riposo in un luogo estraneo  e forse minaccioso. Sedia ripiegata contro la porta. Bottigliette di vetro,  d’intorno. Una pentola.  Rituali che si frappongono tra me e l’ignoto  possibile.

In un letto di consunzione. Dove bisbigliamo  le impressioni della giornata.  Fiducia e abbattimento. Lotta e  torpore. Come su un ring. L’avversario è scorretto. La partita truccata.

Il progetto è subdolo. Ma, anche, raffinato. Ci vogliono menti diaboliche per maneggiare gli intrighi. Per alterare il senso delle parole. Per  consolare i diffidenti.

A volte le parole scritte  diventano un luogo fluido. E basta tirare lo sciacquone. E scivolano via. Lasciando il cesso pulito.

La chiamo lavanderia giudiziaria. È quella che usano,  per riciclare la verità.  

Abbiamo perso gli amici. Cerco, nella mia  carne spirituale,  il valore dell’amicizia. C’è qualcuno potrebbe dire di me che sono stata la sua mensa e il suo focolare? Ma non lo dice. Non lo dirà.

Di loro non potrò mai dire, come il profeta: “Se lui  dovrà conoscere il riflusso della vostra marea, fate che ne conosca anche la piena.”.

Mi  appresto ad andare, ancora sola, presso la cancelleria di un pm. Perché ancora sola? 

Farti apparire come una pazza che cerca vendetta. Evidenziare il tuo isolamento.

La raffinatezza è gestire la verità  da una sola parte. All’insaputa  dell’altra. Nella  piena consapevolezza. Non denunciabile come opinione.

Il  pm mi dà conferme: “Ma lei con chi ce l’ha?”.

La mia fama mi ha preceduto. Non sono quella parte offesa  che domanda alla giustizia  di dare voce e imperio  alle sue ragioni. Sono nella categoria dello scaduto. La categoria B. Come la stampigliatura sulle uova.  

Sono una vittima. Non sono un criminale che procura prestigio. Sono un problema!

Ho compreso. C’è l’intenzione di far saltare tutto. Di piegarmi.

L’unico modo è togliermi gli strumenti  di vita, di lavoro, di identificazione sociale. I progetti e la dignità.

Il tempo è il loro alleato più fidato. Sono già dieci anni. Di immondizia culturale.

Sul luogo del crimine arriva gente impreparata. Calpesta le prove. Manipola gli oggetti. Manda tutto, senza protezione, in archivi polverosi -dai quali rispuntano dopo anni, ormai logorati e inutilizzabili-. Non trova rigorose prove scientifiche. Perché non le cerca o non le vuole cercare.

Oppure,  omette  di usare la logica. Quella logica che, invece,  permette alla nazione di essere ai primi posti nei sistemi corruttivi mondiali. In fondo il male è ovvio e banale. Sono  raffinate le tecniche, per esercitarlo.  

Ho scritto tutto. Ho  contato sui fatti detti esplicitamente. Ho contato su  quelli per cui  ho  pensato che venissero fatte le dovute ricerche.

Il rischio di perdere la saggezza,  l’equilibrio, la dignità è sempre presente.

Non  basta ricordare che   non vanno a braccetto con l’ultima moda. Con   il parrucchiere ( che non vedi da anni). Con l’immagine passata nel tritacarne. Perché ridi poco. Ti nutri male. Ti trucchi da clown con una matita presa  sulle bancarelle. E indossi vestiti aggrinziti come te.  Perchè  non respiri da anni. E non sempre riesci a dire:”Sto bene, grazie. E tu?

La condizione umana  non deve essere misurata da qualcuno che mente.

Cerco di non fare una brutta fine. Quella che ti lascia in balia degli altri. Oggi  sono ossessionata dalle piccole cose: non avere biancheria idonea, se sto male e mi portano in ospedale.

Quando ci siamo stati  abbiamo risolto il problema del cibo. Lui mangiava il primo. Io,  portavo  via  il secondo! Spartani! Come lo sono chi non ha paura di buttarsi dalla  rupe.

Ricordo che la luce era fioca. Cercavo di leggere. Libri nei quali mi rifugiavo.

Un corridoio. Poi, la corsia. Poi, l’intervento. Poi, un ferro nel braccio.

Sono fatta di pasta dura” mi dicevo “ho tutto il tempo che mi serve per pensare!”. Perdermi nelle fantasticherie. Svegliarmi dai sogni.  Prima che si dileguassero al sole. Per conservarne gelosamente una piccola parte. Quella della solidarietà della compagnia, della vicinanza.

Tornata, mi aggrappavo alle pareti del corridoio, lungo e stretto.

Impaziente, mi addentravo alla ricerca dell’aroma. Dolorante per la frattura, barcollavo. Per fargli la sorpresa del caffè mattutino portato a letto. Mi sentivo un’anatra zoppa. Saltellante sulle zampe fiere,  ancora utilizzabili.

Tutt’intorno vedo gente che sa.  

È un sistema perverso. Copiato dal  sistema più importante. Quello malavitoso. Che sopravvive sempre perché gli adepti veri sono nascosti. Agiscono  in giro, nei posti più esclusivi. Dove si accordano con  poche   battute e con ritorni assicurati. “Che ti serve?”.  Non è necessario chiederlo;  è sotteso a ogni discorso.

Solo chi sta nella ragione deve pregare,   umiliarsi, implorare: “Per favore.”.

Il prestigio criminale va protetto, garantito. Così il potere va mantenuto. Se tutti quelli che avanzano diritti venissero  ascoltati - almeno ascoltati - non ci sarebbero privilegi da gestire. Case da comprare. Barche da regalare. Grandi marche da sfoggiare.

Solo umanità dolente, da difendere.

Allora,   cadrebbero le cattedrali. Edificate da personaggi  senza patria né onore. Con l’abilità di concederti il diritto di respirare. Aspettandosi sentiti ringraziamenti.

Ho visto l’indifferenza del boia che accompagna al  patibolo: “La protesta è una eccezione che posso ignorare. Tu non sei nessuno. Non sei protetta.

Sono calunniata. Ma, no! Diffamata. Il seguito? Nessuno, c’è esimente. Oppure il diffamatore non può essere giudicato. Perché sarebbe distolto dal suo lavoro.

Invece, invece sono condannata quando mi permetto di chiedere un risarcimento in civile   

Dettato o copiato non si sa: Questo è il sistema. Con me. 

Il meccanismo è semplice. Non ci vogliono trattati di filosofia  dell’essere. Sono, semplicemente, lasciata sola. Mi viene in aiuto. la mia   sfacciataggine a costringere a valutare le conseguenze  di possibili  eventi  estremi.  

Gli incubi serpeggiano  negli avversari. In vista di conseguenze inesplorate. Ma, solo finchè non siano macinati chilometri di carte. Che li mettano al riparo  di associazioni di pensiero e azioni.

Attendo. Mi costano le lunghe attese. Le finte sollecitudini. Il gioco presupposto. Le voci ricorrenti.

Mi lasciano senza viveri, senza risorse. Per piegarmi!

Scorticano la mia dignità. Lavandola,  come inutili cellule morte.

Mi colpisce  la semplicità con la quale si raccontano crimini  che sanno di persecuzione. Come si racconta di una buona pizza, gustata la sera prima. 

Siamo in balia dei capricci del destino.

Un colpo di tosse. E sangue.  È  sempre il corpo che lancia segnali. Una spia luminosa di rossori alla stregua di “violetta”. Sonora, come ai semafori per i non vedenti. Ricovero. Un galantuomo che dispone indagini, approfondimenti. I polmoni sono una cortina fumogena.

Il  rossore dei nemici si concretizza in montagne di carta.

Sono più sola che mai.

Tra andirivieni  e preoccupazioni  pratiche: un pigiama al mio  re nudo.

Questo rituale  si impone ogni volta. A casa ammoniva,  sempre:  “Se dovessi morire, voglio essere nudo con un semplice sudario. Nel mio studio. Tra le mie opere.” La nudità è la sua beatitudine.

Vado in giro per corridoi.

Attese, attese, e poi, ancora attese.

La mia immagine è tinta  di questa presenza forzata.

L’umiliazione delle attese è gestita  e  coltivata  con arte sopraffina.  È necessario farmi passare per una rompiscatole. L’effetto è devastante e si legge nelle parole mutate di chi si avvicina e commenta: “Vogliono guadagnare troppo”  che diventano: “Ma tu non puoi alterare il senso di quello che ti ho detto. Mi hai fatto litigare e compromettere.“.

Nel dubbio di chi sia amico e chi nemico,  diffido di tutti .

Sì! C’è intelligenza con il nemico. “Che aje avè”. E tutto si normalizza.

Debbo avere fiducia.  Qualcuno  leggerà le carte?  Sommando due più due opererà una scelta matematica del quattro?

No! Non ho questa fiducia.

Il mio avversario è  un artista. Un avvocato di “rispetto”.  Ha sovvertito tutte  le regole. Fornendo prestazioni  di risultato e non di mezzi. Anzi,  li  ha usati entrambi. Come in un doppio a tennis.

Perché faccia sempre strike  è un mistero. È una facoltà che gli si concede a piene mani. Con sublime disponibilità dei conviviali della giustizia.

Le paroline sussurrate danno l’impressione  di levità, di leggerezza, di un piacere innocente. Un fare  rimandato, una soluzione  sempre possibile, una  marachella da perdonare, Come  se gli ebrei nelle camere a gas fossero stati bombardati dall’elio e tutti in coro levassero un canto  infantile e scoordinato. Ma, non letale.  

Le paroline!

Non vogliono chiudere  perché guadagnano.”. Chi? Come? Posso immaginare i ritorni di immagine. I petti infuori per le vittorie. La tutela di  interessi. Ma altre dazioni? A chi sono destinate? In quale modo elargite? Chi ha il segreto di tutto?

Ci sentiamo braccati. Da bracconieri  travestiti.

Minacce a ferragosto. Come già  a pasqua, di giovedì santo. Senza ragione. Anzi, un unico motivo:  creare un sentimento di precarietà, di impotenza, di ineluttabilità. Di provvisorietà vicina alla morte.

Non c’è alcuna ragione morale  e neppure mercantile  nel dire, il quindici agosto,: “Ve ne dovete andare! Di quello che ancora  mi dovete non voglio niente!” Illogico. Strumentale. Pagato con altri favori?

Non c’è scampo. Neppure può sfuggire  che  manca l’elemento umano. Quando mandi in strada un ammalato appena dimesso dall’ospedale.

L’afa è insopportabile. Ci alleniamo come atleti che debbono  superare il loro stesso record.  Celebrato solo qualche  minuto prima.

Vicende  fuori dai processi. Quando è stata l’ultima volta che ho avuto un pensiero leggero, una distrazione? Godere  di una passeggiata. Godere di un buon film. Visitare una mostra. Andare alla villa comunale.

I nostri passi  consumano  la strada. Qualche pensiero  si trasforma  in sillabe per haiku.

Una giornata di grigio  e le guglie che si riflettono nei pantani. Un’ombra di  colombo  che sul selciato somiglia a un ratto. Ispirazioni fantastiche di una mente allenata al particolare. Una smorfia. Una distrazione. O un insulto.

Amici e  potenziali amici  intercettati dai nemici. Mi sento oppressa da qualcosa di più grande di me. Che esplora, controlla, intercetta, previene.

Non debbo perdere le speranze. Sono convinta che le dinamiche umane siano destinate a finire. Esaurirsi o fermarsi.  Perché  terminate  dalle stesse motivazioni  iniziali.

Poi, poi mi avvilisce l’idea  che  le società sopravvivono con gli intrighi messi in atto dagli umani.

Il tempo delle società è lo stesso   tempo della giustizia?  Sì! Combaciano perfettamente. In entrambi sopravvive il   potere, non il dovere. I  cambi di guardia sono stati infiniti. I voltafaccia   certi e imprevedibili. Sull’una e l’altra sponda.

Mi reco dal giudice.  Sono venuti gli avvocati. Scocciati, molto scocciati, di essersi scomodati  per una insignificante parte lesa. Dicono in coro  che  le difese sono difese. In amore e in guerra tutto è lecito. Ma l’audacia delle menzogne  accompagnata da infrazioni e omissioni di ogni genere? È nelle possibilità dei magistrati  verificare?

Il provvedimento: una poesia. Incoerente e frivola.  È vero che non sono mai stata pagata. Poi, il fulmine sulla strada di Damasco. Il ravvedimento: “Non fa niente!

La società non funziona. La magistratura non scruta. Le lobbies vincono sempre. Comunque.

Mi sembra di aver avuto il foglio di via irrevocabile. Come un immigrato.

Capisco bene, ora, il meccanismo. Nel quale vengono stritolati  quelli che perdono lavoro. I diseredati della società. Quelli che perdono le case. Con essa le proprie radici.

I momenti della vita  non si ricordano senza gli odori delle cose che ti appartengono.

Mi sento violata  come in uno stupro. Il pensiero che estranei annusino la mia vita  mi opprime. Che aprano i miei cassetti. Che spiino  i miei archivi.

Le mie carte, le mie memorie, le mie riflessioni e analisi sono tutte racchiuse in un ferro di cavallo. È questa la forma della casa  scura e misteriosa. Ma,  illuminata da me  e dalle nostre operosità.

Hanno esplorato  i miei sensi in quella casa. Anche le mie attese di altri luoghi programmati. Le rondini preparano nidi  altrove, quando vanno incontro ad altre primavere.

Ora, la faccia imbecille  di chi si accontenta di negarti qualcosa, con  ottusa perseveranza, avvilisce la mia già precaria condizione  fisica.

Nella italietta, che ci circonda,  ci sono due binari. Non si incontrano, non dialogano, non si conoscono. Se sei in difficoltà perdi pezzetti  di carne. Gli stolti,  servi  o padroni, sono pronti ad assaltare la tua integrità. Come cani che annusano ossa già spolpate. 

Abbiamo necessità di mangiare. Sono giorni  di crackers. Senza medicine.

Lo sanno! Lo sanno!

Mi angustiano le carte. Migliaia di carte. Sanno che non posso andare alla stazione. In un dormitorio. Da una conoscente. Senza lasciare le difese. Mi occorre un presidio. Una emergency  da campo. Infastidisce  la mia perseveranza  in qualsiasi condizione,  in ginocchio o in piedi, in  vita  o in morte.

La sala macelleria entra,  allora,  in funzione per vie traverse: “Se la cacciamo  improvvisamente   è costretta a lasciare il presidio, a mollare gli attrezzi; a perdere la bussola”. Ebbene,  capita con  cadenze regolari. La loro agenda elettronica funziona alla perfezione. I  loro tanti presidi sono efficienti, scaltri organizzati. Lavorano e respirano come un unico polmone artificiale.  

Incontro una cattedratica. Mi dice che lei lascerebbe tutto. Tutto uno schifo. Andrebbe via  lontana. In pace. Non ho ben capito il luogo che mi indica. Non ho ben capito perché dovrei lasciar perdere. Non sono mica Spencer Grant di “Dean Koontz”  ne  “Il fiume nero dell’anima “? O, forse, sì! In questo caso chi è il  mio Roy Miro?

Le mie emozioni hanno la meglio. Il mio coraggio si affievolisce. La mia pelle scorticata soffre. Cerco di capire. Scrivo di getto “le intercettazioni fantastiche”. Con  messa a punto dei personaggi. Rigorosamente in ordine di entrata nei fili violati. Ne descrivo le caratteristiche e le peculiarità. Tutte, riconducibili a quell’esercizio del potere  subdolo e intrecciato. Quello che si chiama  traffico di influenza. Operazione sterile. Non sono pubblicabili!

Assemblo. Vaneggio, ma lucidamente. Perdo la bussola. Poi mi faccio coraggio. E  cerco di navigare lungo costa.

Eppure il traffico c’è. Ne sento il frastuono. Clacksons, trombette, sonagli  e varie.  Ancora vaneggio.

Ho per caso ascoltato dire a un giudice: “È quella questione di cui si è  parlato ieri, ricorda?

Sono andata nelle fogne del civile?  Forse,  un giudice  ha rinviato la lettura del dispositivo, fino al limite della decenza massima, all’arrivo del  procuratore di controparte? Forse,  si è spinto a non leggere il dispositivo?  Lasciandolo a disposizione  delle parti. E della mia indignazione.

Forse l’insulto alla giustizia, alla coerenza, alla disciplina , al rigore  è potente?

Vivo momenti brutti, la sera. Quando appoggio  la testa sul cuscino. Tra una specie di culletta. Fingo di dormire. Per non guardare due occhi nel buio. Sbarrati  e smarriti. Come in uno specchio.

Fingo. Forse finge anche lui. Il  nenniano di casa che ripete:  “Solo chi non accetta di essere sconfitto, non è sconfitto!”. 

Spera, sempre, nell’intimo, sulla ragione della verità. Belle parole  che mi rianimano.

Ma, litighiamo con ferocia. Nelle nostre trame psicologiche. Nelle trame intrecciate  della nostra vita. Nelle debolezze di chi è un ingrediente solo.

Chi “ascolta”  può giocare. Inventarsi  i nostri rapporti di forza e debolezza. Può manipolarli. Può usarli. Può gestirli.

Si possono minare le certezze e l’affidamento. Con le paure. Con le mancate sintonie. Con  gli allarmi.  Non uditi o  sottovalutati. Le guerre  si combattono, prima, nei pensieri. Il dissenso  confonde la sagoma del nemico. E  gli avversari lo sanno.

La lucidità  è tutta da un lato. Vogliono  vincere. Con o senza gli aiutini dei tribù-nalini. Minano le certezze. Mascherano i  propositi. Così si  mostrano disponibili a trattative,  per poi negare, negare, negare.  

In guerra si lascia  il nemico  senza viveri. Per sfiancarlo e vincerlo. E, poi, saccheggiarlo.

In pace, si può usare la stessa tecnica?

Sì! Lo sanno i criminali economici. Lo sanno quelli che approfittano  dei  fuochi e fiamme. Del disagio sociale inoculato nelle fibre della  gente. Nelle famiglie. Nei luoghi di lavoro. Nelle fabbriche come nelle professioni. Finanche nelle arti. Per agire da sciacalli. Per scrollarsi i doveri. Per offendere la tua vita. Per escluderti da ogni elenco di diritti.

Sì! Dall’elenco dei bisogni. Non dico di quello del superfluo. Dove non possono che accogliere gli amici, gli amici degli amici e quelli meritevoli.  Perché  servizievoli e piegati agli interessi. E muti.

Come in un loculo: “per sè e per i suoi”.

Gli altri, allo scoperto. E la loro vita  si trasmuta  nella iniziativa solitaria del pazzo che parla alla luna.

La  mia angoscia ultima. Non essere adeguata ad eventi imprevedibili. Soffro  di attacchi di panico. Anche  renali. Ho difficoltà  respiratorie. Cosa mi succederà? Se mi dovessi sentire male, improvvisamente.  Comincio ad aver paura degli eventi. Delle imprevedibilità  dei tramonti.

Invento un’isola di salvataggio. Un paio di babbucce per girare nei corridoi. Una casacca per camicia. Una vestaglia  per proteggermi dal freddo. Stipo tutto nel cellophane. Per trovarlo pulito e pronto all’uso.

Mi arrovello nelle possibilità. Alla fine, preferisco essere una sopravvissuta.  Una che ha lottato, ha amato, ha sofferto. Una vita tra tante. Una vita  che non potrà mai essere celebrata, raccontata, vissuta. Se non da me.

Le istituzioni non rispondono: Ma,  i tribù-nalini peggio. Questi si avvalgono della facoltà di non rispondere. Intanto, le attese  ti consumano presente e avvenire.

Questa mattina in una cancelleria. Con spirito di fiducia. Mi voglio informare sull’esito di una causa. Affidata a un magistrato, donna.  Conosciuta per serietà e preparazione. Anche cortesia. Il che  non guasta.

Ma è una sentenza o un responso? Come quello che ti danno in un anonimo laboratorio. Che attesta la presenza di cellule malate. Io, so chi è malato. Ma sono fiduciosa. Mi ostino  a chiamarla sentenza.  Insomma,    quella che viene deliberata tra le parti. Con spirito di equidistanza.

Mi ripasso mentalmente le difese. Sì! Ho scritto che la competenza per materia è una baggianata coltivata come gli ogm. Sì! Ho depositato le dichiarazioni contrarie dei medesimi  funzionari di controparte. Sì! Ho rilevato  che si è formato il giudicato  esterno (è un dato dal potere normativo, debbo essere fiduciosa!). Sì! Ho rappresentato che un giudice del lavoro ha  fatto una ordinanza chiedendosi quale fosse l’interesse della mia controparte a sollevare una eccezione inesistente. Sì! Sono tranquilla. O, no? Il panico mi assale. Vedo la giustizia come l’infermiera che distrattamente ti passa il responso: “C’è un cancro.”.

Mi dice di averla depositata stamattina. Le chiedo l’esito. La speranza sembra timidezza.

Ho perso la causa. Maschero il mio disappunto. Le chiedo se abbia letto  la documentazione che  ho versato agli atti. Le dichiarazioni dei vertici della società. Se abbia letto l’ordinanza del giudice del lavoro. Se abbia letto le mie osservazioni in diritto processuale e sostanziale.

Mi concede l’onore delle armi? Non lo so.

Mi dice che ha “curato”  le sue perplessità chiedendo ad altri colleghi che avevano trattato le altre cause. Poi, seguito le loro decisioni.

Per non sbagliare, o per non pensare?

Nonostante sia aprile continua a piovere. Le mie scarpe estive  sono crollate. Come me.

Chiamo aiuto. Non abbiamo ricambi. Non abbiamo scarpe adeguate ai continui temporali. I piedi sono gonfi e arrossati.

Li curo con ghiaccio. Finchè posso abusare del bar all’angolo. Poi, niente. Aspetto paziente che passi.

In farmacia  riesco a rimediare una fascia elastica. A prezzo stracciato. Sembra usata. Ma  mi adeguo. In tempesta basta non essere sotto un albero. Almeno spero.

Tutto è chiaro a tutti. Ma le voci di dissenso  tacciono. Nel crepuscolo  del proprio utile: ”tengo famiglia, tengo potere, tengo agli amici e agli amici degli amici”. Eppure ho sollecitato attenzione. Ho raccontato  senza pudori di non potermi permettere quasi nulla. Di essere, specie, di notte,  oppressa da luoghi insicuri. Voci  e passaggi  e urla e  deliri. Di chi non conosco. Nel chiuso di una stanza. Come agli arresti domiciliari.

Sembra che tutte le chiavi siano un passepartout.

Qualcuno mi dice: “ ...  con quel ciuffo bianco sembra  più giovane ... sorrida! ...”.

Eh,  sì. Le regole del gioco: sorridere. Si sorride per mostrare grinta e sicurezza e glamour. Quando si deve spiegare al mondo di non avere nulla da temere. Di essere certi e devoti alla causa. Come in politica.

In questa partita sono, forse,  rassicurata da  eventi favorevoli? Oppure a sorridere sono solo avversari nelle loro fortezze inespugnabili?

Racconto. Mi indigno. Vado per corridoi maleodoranti.

Ora che sono in atto prescrizioni  le  facce sono indifferenti. Le attese sono più lunghe. 

Le concessioni  sono  subdole. Come è subdola la pietà.

Una lunga  catena  di dinieghi, disprezzi, profitti  materiali e psicologici. Il deserto che non vuoi vedere. Quello morale. Quello delle finzioni.

E, peggio, il deserto di quel territorio emotivo riservato e  privato. Quello degli affetti,  che trovi minato.

Capace da solo di  toglierti vigore.

Quello che ti fa veramente  a pezzi. Peggio di una mannaia.

Mascherato dalla  ipocrisia della impossibilità. Dalla ipocrisia per altri salvacondotti. Mercificati e spacciati per solenni sacrifici.

Rileggo,  spesso , la numerazione delle “vittorie”  riportate dal mio contraddittore. Infantilismo dialettico di chi mostra i bei voti riportati  Che ha aggiornato ogni procedimento come in un fantomatico  pallottoliere.

Mi scuote. Mi scoraggia. Che la giustizia  mastichi gomme americane. Che tolleri  dichiarazioni false  in tutti gli  atti giudiziari. Che tolleri  sentenze  copia-incolla. Che tolleri  che organismi di controllo si astengano da qualsivoglia riscontro che abbia una logica di verità.  Che tolleri che i presidi di legalità  servano ad afferrare  saldamente potere e  controlli. Devianti  e  subdoli. Con troppe  macchie. Che la giustizia, per i poveri cristi, si avvalga della facoltà di non rispondere. Di attese.

Sono ammutolita e  dolente. Tutte le dinamiche mi sono note. Quelle sociali. Quelle culturali. Quelle familiari. Perfino quelle  del potere. Che si esercita ovunque, a man bassa. E fingo di non vedere i  tradimenti.

Sono le indifferenze che mi ghiacciano  e mi straziano l’anima.

È tutto? No!

Il più si tace. Sempre.

 

TORNA

 

 

buroGrazia

  

 … tutto a posto per quel piacere che ti ho fatto? …

… ascolta, fammi un piacere … controlla quella situazione e fammi il piacere di toglierla di mezzo …

… per piacere vedi di  risolvermi quel piccolo fastidio che ho avuto …

 … te ne ho parlato l’ultima volta … quando ti ho ringraziato per quel piacere di tuo cugino …

… per quanto riguarda quell’inconveniente di cui mi hai accennato sarà per me un vero piacere risolverlo …

… per piacere fammi il piacere   di parlare  con il cognato di tuo zio perché mi deve fare un piacere …

… siccome già me ne ha fatto uno di  piacere è meglio che ci parli tu, per quest’altro piacere …

 … salve.   sono il figlio di …. ah,   suo  padre mi ha fatto un grande piacere, sono debitore …

… ah, non si preoccupi, mi ha mandato da lei giusto per un piacere che solo  lei gli può fare.

    scusa, ti chiamo per un piacere, puoi parlare con … no? allora fammi il piacere tu di trovarmi qualcuno al quale è obbligato per un piacere ricevuto.

…scusa puoi intervenire per quel piacere che sai? tranquillo, sai che sto cercando la persona giusta per quel grosso piacere e così gli parlerò anche del tuo  piacere appena, però, avrà risolto il mio.

… che piacere incontrarti di persona mio genero mi ha appena chiamato per ringraziarti del piacere.

… sì, sì, ha ricevuto da me  molti piaceri, ma li ho fatti con immenso piacere.

… scusa del ritardo per quel piacere, ma sto cercando la persona giusta che possa ricambiare al cugino di mio nonno per intrecci parentali con un mio  trisavolo che gli deve un lontano piacere…

 piacere di avervi conosciuto!

ma fateci il piacere!

 

 TORNA

 

 

media-zione

 

 La cultura della mediazione  è, dovrebbe essere,  un principio sano; un principio di solidarietà, un misticismo di rapporti, una valutazione generosa del “mio giuridico” riconosciuto alla dimensione sociale e individuale altrui

Anche i consideranda (se ne contano trenta)   contenuti nella Direttiva  n. 2008/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008 sono  ispirati a principi di solidarietà,  reciprocità, comunicazione , amicizia.  

 La reintroduzione della mediazione sembrerebbe, dunque,   ispirata non solo  alla Convenzione sui diritti umani (che all’art. 6 invita a garantire tempi ragionevoli per la risoluzione delle controversie al fine di scongiurare i ricorsi alla Suprema Corte)  ma,  anche, alla introduzione di una cultura della tolleranza , alla relazione amichevole, fiduciosa,  socialmente sostenibile.

A tali  principi si richiamano le tradizioni dei  paesi europei  (che hanno la cultura della mediazione nel DNA) mentre l’Italia  è posizionata agli ultimi posti nelle classifiche di efficienza del sistema giustizia avanti solo a Turchia e Ucraina.

Nei paesi europei dove la mediazione è di casa  non per imposizione legislativa - ma per un ideale corrispondente all’idea di dignità umana e  la reale cultura comunicativa messa a disposizione dalle strutture pubbliche sul territorio-  appare operativa senza intoppi e resistenze.

In Francia, dove già esistevano  strutture di prossimità,  è stata introdotta una ordinanza applicativa per la  “semplificazione e miglioramento della qualità del diritto”   in nome della fraternitè; un fondamentale  principio di prossimità territoriale  specie nelle risoluzioni di conflitti familiari e minorili.

La mediazione, per esprimere adeguatamente la cultura che  è  nelle intenzioni,   dovrebbe  recuperare una reciprocità reale,  estesa a tutte le materie;  senza il distinguo che caratterizza la esenzione per lobby potenti che operano con predominanza  imponendo o privilegiando  esclusioni.

E’ impressione che si agiti un conflitto,  nelle diverse anime del campo Giustizia,  dove le lobby continuano a dettare le agende costringendo a ripiegamenti, ripensamenti   e, forse emendamenti.

A provvedimenti inadeguati anche in ordine alla necessaria  indipendenza  del mediatore che non viene sufficientemente  esaltata;  poiché si ritiene necessaria e inclusiva la sola nozione di imparzialità.

Non a caso i concetti  di imparzialità e indipendenza della Magistratura  risultano  differenziati ed evidenziati,   singolarmente e  adeguatamente,  nella giurisprudenza della Corte che  “richiede che la funzione del giudicare sia assegnata ad un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia del decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio, in occasioni di funzioni decisorie che, egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza”;  richiamandosi ai principi della  uguaglianza dei cittadini, della pari loro  dignità e   libertà  di fronte alla legge;  secondo  i principi fondamentali che si rinvengono nei primi incisivi  capitoli della Carta.

Il mondo dell’avvocatura ha individuato nella mediazione obbligatoria  un onere supplementare a carico dei  cittadini;  senza contropartite adeguate in tema di  efficienza,  rapidità,  certezza del diritto.

E’  di queste ore la dichiarazione del Presidente del Senato, Pietro Grasso,  che ha rimesso  in dibattito il tema della Giustizia civile: “Come presidente del Senato intendo utilizzare a pieno tutti gli strumenti a mia disposizione perché ai temi della giustizia si dedichi un dibattito parlamentare costruttivo, il più completo possibile, e che il confronto possa offrire al Paese regole e procedure più moderne ed adeguate ai bisogni della nostra società”;  rammentando di non aver  perso di vista “gli obiettivi della sua funzione precedente: legalità, giustizia e verità”.

Anche la mediazione, allora,  va ripensata nell’ottica della reale e concreta incisività fuori dalle logiche che finora ne  hanno inquinato il dibattito; con decisioni che intendono adoperare  una chirurgia estetica per i “compiti europei”  ponendo  rimedio inadeguato a bruttezze divenute, volontariamente o involontariamente,  endemiche

Una vera cultura della mediazione si dovrebbe venire ad esprimere con accessi completamente gratuiti  e  con  finalità tese  a pervenire al  concreto risultato di definire il contenzioso  con una conciliazione.

La regolamentazione attuativa dovrebbe, peraltro,  prevedere  sanzioni  per coloro che, invitati alla mediazione  se ne astengano immotivatamente; così perseguendo lo scopo di  allungare i tempi della domanda di Giustizia coltivando volontariamente  la conflittualità ;  senza conseguenze, se non eventualmente future nella valutazione del comportamento e  -nel regime delle spese di soccombenza-.

Nel sistema giudiziario  francese  vigono le “astraintes” –sanzioni pesantemente punitive-   e, comunque,   nel sistema processuale italiano,  è stata introdotta una  simil norma con l’art. 614 bis cpc che consente al Giudice di applicare misure coercitive indirette.

Potrebbero essere utili per alimentare la cultura del confronto  e allacciare un dialogo costruttivo?

 

TORNA

 

 

il male

 

Il male diventa sempre più banale, inutile, imprevedibile.

Si traduce in  fenomeni di violenza generalizzata. Violenza esercitata   nei più svariati  contesti sociali e spesso, sempre più spesso,  svincolato da patologie psichiche.

In effetti risulta che solo il cinque per cento delle persone aggressive e violente - che traducono le loro condotte in  reati – venga, poi,  dichiarata incapace di intendere e di volere.

Si agisce, dunque,  in piena consapevolezza e il male che  pervade è quello di agire, sentendosene legittimati, in difesa della  cosiddetta  normalità.

Quella normalità che la società è disposta ad attribuire;  fondandola sulle certezze: famiglia, lavoro, amici , consenso, relazioni.

Normalità di  persone  disposte ad usare la più bieca efferatezza.

Senza  controllo, senza pietà, senza sentire la voce della coscienza; poiché flebile, afona. Impercettibile nel fragore di quello che si pretende di dover difendere, ad ogni costo.

Nel territorio più segreto e insidioso, esplorato dalla  psichiatria, diventa difesa ad oltranza della propria “immagine fantasticata”;  che prende il  sopravvento sulla realtà .

Gli ultimi fatti di cronaca  lasciano annichiliti. Il delitto di Marilia, la giovane brasiliana  uccisa  nel caldo torrido di agosto  da colui del quale si fidava: il datore di lavoro e amante e futuro padre del figlio che aveva in grembo.

Dopo il delitto pare sia andato ad una lezione di volo. Non dopo essersi accuratamente lavato, semmai profumato di fresco.   

Vorrei soffermarmi sull’aspetto psicologico  del crimine,   del quale sembra si siano perse le tracce. Quell’aspetto che, come un marchio, accompagnerà  inesorabilmente per il resto della vita; indipendentemente dalla scoperta della  responsabilità e dalla condanna della società.

Emile Zola l’ha descritta egregiamente in “Teresa Raquin”.

Il romanzo, all’epoca,   suscitò scalpore  per la crudezza nella descrizione dei temperamenti dei due amanti Lorenzo e Teresa che,   in preda ai rimorsi, dopo aver annegato Camillo - il marito di Teresa - si sbranano, dilaniandosi l’anima e accusandosi reciprocamente. Con la stessa ferocia cieca della passione provata. Fino a soccombere alla loro  colpa intima e segreta.

Zola  esplorò il senso di colpa  nei dettagli di un divenire inesorabile che cancellava la passione e, con essa,  le motivazioni apparenti ed emotive  del delitto; risolvendola in  pura crudeltà.

Zola,  nella prefazione, preavverte i lettori:  “ ho semplicemente fatto su due corpi vivi il lavoro che i chirurghi fanno sui cadaveri”.

Prima di commettere un delitto bisognerebbe conoscere e misurare  tutti i passi che portano all’inferno. Passare dallo psicologo o, almeno,  per la biblioteca dove trovare  argomenti  di riflessione su quello che si sta  per scatenare, nella vita degli altri ma anche  in se  stessi.

Ma ogni delitto è più forte della ragione. 

 

 TORNA

 

 

al banco di un bar

 

Sono al banco di un bar, nonché rinomata pasticceria.

Dividiamo il caffè, uno per due. Una abitudine e insieme una limitazione. È facile diventare caffeinomani.

Il caffè costa 90 centesimi e, come è usuale, la monetina di 10 centesimi  è posata  sul banco, insieme allo scontrino. 

Due i barman. Uno serve al banco. L’altro prepara il caffè,  dopo che ha ricevuto l’ ”ordine di esecuzione”  dal primo che, a sua volta,  ha raccolto l’ordinazione.

Troppa burocrazia anche  intorno ad un caffè.

Qui,  non sempre è la patria del buon caffè. Nonostante le dissertazioni teatrali di De Filippo che parlava della cultura della tostatura necessariamente a “manto di monaco”.

Nel caso, questo particolare non si nota. Ma, questa è un’altra storia che non interessa questa breve cronaca.

Gli esecutori del rituale sono in divisa: sembrano  ufficiali con giacca coreana.

Nel pieno dell’operazione entra un signore che chiede, per cortesia, un bicchiere d’acqua. Il nostro “ufficiale” gli risponde che l’acqua non è gratis. “Si paga!”

Preso alla sprovvista l’avventore, intimidito, sconcertato, umiliato, chiede quanto costa. “Dieci centesimi. Vada alla cassa!”! 

Cerco i dieci centesimi ma,  perdo tempo. Avrei voglia di recuperare la moneta di mancia e andare immediatamente alla cassa a pagare. Sarei stata curiosa di leggere sullo scontrino il motivo della erogazione e, anche,   guardare l’espressione del  barman; che, nel frattempo, cercava cenni di approvazione  al suo operato senza trovare consenso.

E il signore si allontana, anzi si dilegua;   dicendo di essere dispiaciuto, ma  di non avere, in quel momento, spiccioli.

Si allontana. Nel caldo torrido di agosto.

Napoli non è il posto del caffè pagato? Ma anche il posto dell’acqua da pagare?

La proverbiale generosità del popolo ha ceduto il posto alla avarizia, al lucro selvaggio, alla prevaricazione di un piccolo potere esercitato con l’occhio alla vittima di turno.

Ci sono poche fontanelle di acqua potabile, chiamate beverini. sparse per la città.

E,  per buona fortuna, pare rientrato il progetto  di applicare gettoniere a pagamento alle fontanelle pubbliche, installando “fontanelli”.

E l’acqua è potabile? Ma chi garantisce?

La materia è regolamentata dal decreto legislativo n. 31 del 2001 (naturalmente entrato in  vigore solo dal 2003 in recepimento della direttiva europea 98/83/CE) che detta i parametri relativi alla qualità dell’aennali per adeguarvisi.

Ma chicqua  destinata al consumo umano e anche deroghe quinqu garantisce  tra nitriti, nitrati, arsenico e uranio la qualità delle acque? Che, peraltro, dovrebbero contenere una minima concentrazione di microrganismi e  parassiti, con  tollerabilità secondo i parametri microbiologici, chimici e di radioattività?

Certo non basta la buona volontà  espressa nella ultima delibera che dovrebbe imporre (il condizionale è d’obbligo),  agli amministratori di condomini  la verifica, a pagamento,  della potabilità delle acque per uso domestico.

Cinque i punti stabiliti dalla delibera del Comune di Napoli. La prima voce sancisce che l’acqua è un “bene comune”, quindi “non assoggettabile a meccanismi di mercato”. Inoltre la gestione del “servizio idrico” deve essere di proprietà pubblica e improntato a “criteri di equità, solidarietà e rispetto degli equilibri ecologici” (per la lettura completa: http://www.fanpage.it/acqua-bene-comune-per-luigi-de-magistris-presentata-la-nuova-delibera-del-comune-di-napoli/#ixzz2gHEuUvs9).

Nel frattempo fioccano sanzioni dall’Europa.

Abbiamo l’acqua alla gola, ancora una volta.

 

 TORNA

  

 

la parola

 

La parola dovrebbe avere un peso, un volume, una qualità, una eco, un  limite. Forse, anche,  un arcobaleno di colori, una speranza, un  buon gusto, e, finanche,  un poco di  poesia.

La politica è diventata, da tempo, il luogo dove, per persuadere  e ottenere consensi,  non è necessario presentarsi, con prove di quanto si afferma,  ma con tecniche convincenti. Un largo sorriso e una ripetizione di frasi ad effetto per  persuadere la platea che ascolta  la verità. Ma è  una parvenza di vero.

I politici che hanno l’ossessione di rimanere a galla e aggrappati alla scena perseguono un solo interesse. Confondere l’elettorato. Così usano tecniche di persuasione  fatte di  parole abusate, ovvero di  bugie istantanee come una foto. Che la foto  sia sgranata o a fuoco poco importa.

Poi, “facimmo ammuina”;  per il gradimento degli ascoltatori-elettori.

Molti si affidano a guru della comunicazione.

Con un corso intensivo di poche ore  insegnano a spararla sempre più grossa, con indifferenza. Si badi:  accompagnando la parola marcita a sorrisi stampati e radiosi di condiscendenza o a gesticolazioni da “comica finale”.

Lo spettacolo si rappresenta da così tanto  che sembra sia subentrata una assuefazione  bulimica,  un consumismo di notizie che brucia altre percezioni.

Il maestro di queste tecniche di comunicazione è stato Silvio Berlusconi.

Possiamo immaginare, sin da ora, un  nostro prossimo futuro intriso di astute conferenze stampa direttamente dai Servizi Sociali che si contenderanno l’onore di ospitarlo.

Il reframing possiamo immaginarlo: barzellette (è bravo!) e doppi sensi conditi da  autocelebrazioni e,  anche, cornicelle con le mani.

Si troverà il tempo per l’indignazione che, il più delle volte, solo  a parole è serpeggiato  negli spettatori passivi di questo ibrido spettacolo a metà tra cabaret e dramma?

Ci vuole la parola, quella che  dovrebbe avere un peso, un volume, una qualità, una eco, un  limite, un arcobaleno di colori, una speranza, un  buon gusto  e, finanche,   un poco di  poesia. Una visione impegnata di futuro.

 

 TORNA

 

 

 un anziano avvocato

 

L’altro giorno ho avuto occasione di  salutare  un anziano avvocato che conosco da tempo. Gli parlavo  della mia iniziativa per la costituzione di un fondo di solidarietà per l’adozione a distanza di bambine svantaggiate.    Mi ascoltava compreso, rapito, partecipe.  Improvvisamente, senza alcuna sollecitazione,  ha iniziato a  parlarmi  della sua vita, della perdita della compagna,  di quanto avesse avuto  modo di riflettere sul suo essere stato tutta la vita un maschilista convinto.

Una intensità di sentire, una visione del mondo e del privato ripensata e riguadagnata; in un ricordo rispettoso, generoso, amoroso.

Cito questo episodio perché il maschilismo viene  additato, impropriamente,  come una delle cause culturali che,  concependo la donna come possesso, ne contrae la libertà e l’autodeterminazione; contribuendo a disparità negli equilibri precari della famiglia.

La famiglia, con le sue “regole” proteggeva, al suo stesso interno,  la  identità, il disagio,  la precarietà, la percezione della mancanza di diritti e  di soluzioni.

E in questo proteggere occultava anche il sopruso, l’abuso.

E con  il sopruso e l’abuso, l’ aggressività di prossimità;  pericolosa e incontrollabile, che si riversa su compagni di vita nei cui occhi non vediamo più amore, apprezzamento,  unicità, stabilità.

Si  continua ad assimilare questo delitto a  un malinteso senso di amore, possesso e gelosia;  mentre la  causa sociale  è da ricercarsi  nella precarietà esposta della vita, del lavoro  insicuro e della disoccupazione imperante,  dei rapporti sociali che indeboliscono  e    tracimano   nella prepotenza di proprietà.

Così, il femminicidio è diventato rappresentazione.

Uno scenario dove  la narrazione esce  dal consesso del segreto custodito dietro tende di operosità, di ricette, di amore senza discussione, di autorità  e comando, di silenzi dolorosi.

Una narrazione non  più  garantita da etichette. Da quando la donna ha avuto  il coraggio di denunciare le violenze domestiche - e quelle sessuali - e di additare  al giudizio della comunità  gli autori di tali comportamenti.

Allora,  il rischio  di narrarsi nella tragicità  di un finale che scrive la storia nel possesso, nel delitto senza più  soluzioni;la storia tragica dove c’è  una vittima, che non ha voce e un aggressore che ha scritto, ancora,autoritariamente  la parola fine.

L’uomo  - ormai braccato - rischia di  riappropriarsi    dell’odio crudele senza soluzioni 

Le vicende sono, così, condotte  ad una giustificazione,  sotto l’egida dell’amore malato e il protagonista,  lasciato solo,  portato alla narrazione senza vie di uscita.

Un finale che si scrive addosso;  perché non riesce ad elaborare  altra trama possibile.

 

 TORNA

 

 

la filosofia Zen

 

La filosofia Zen, oltre a un modo di essere mistico,-  dove l’uomo è unità e insieme  interdipendente da ogni altro fenomeno,- professa un’agricoltura sana e rispettosa della naturale  fertilità del suolo.

Di contro la tecnica di  coltivazione di tradizione europea  si basa sulla prassi  di  sterilizzare il terreno ripulendolo fino ad ottenere una semplificazione biologica del prodotto da coltivare.

Attuando un trattamento  capace di rendere  i terreni ostili  ad ogni altra  forma di vita.

Un sistema per il quale si favorisce  un progressivo  indebolimento delle piante e delle colture  che diventano soggette ad attacchi di malattie e di  parassiti che si combatteranno, poi,  con altri sistemi  chimici,  in un perenne circolo vizioso.

Le tecniche agricole su basano, quindi,  sull’uso indiscriminato di pesticidi che sono causa, diretta e indiretta di malattie metaboliche.

Malattie  che, di conseguenza, gravano in maniera abnorme sulle  spese di assistenza sanitaria.

Qui osservando che,  nelle commissioni ministeriali, la voce autorevole continua ad essere quella  di chimici e non di esperti in  agro ecologia con il risultato evidente di  un incremento  dell’uso di pesticidi; ben il 35% superiore alla media europea.

Un danno sociale che “avallato” dal silenzio  del Ministero della Salute si coniuga con un danno all’ambiente e all’economia del territorio; perdendo  le possibilità di una conversione ad una agricoltura integrata, ecologica  ed ecosostenibile; peraltro  finanziata dalla UE.

In questo ultimo periodo si è consolidato  l’incubo del prodotto agricolo “avvelenato”; dovendosi annotare che le agenzie sul territorio non sempre danno risposte adeguate poiché non sono monitorati, né ufficializzati i siti e  tutte le zone dove la mano dell’uomo ha distrutto  l’ambiente sversando materiali di ogni genere in nome della logica del profitto e del malaffare.

Emergendo il silenzio colpevole di chi sapeva da tempo senza aver avuto il coraggio di parlare e il dovere di  intervenire e l’obbligo morale di apprestare rimedi.

E la comunità, nel contempo,  ha introiettato la paura di ammalarsi.

Nella “terra dei fuochi” lievita  la disperazione per il territorio inquinato ma il fenomeno è nazionale per la presenza di discariche abusive e di discariche non bonificate  pericolosamente vicine alle coltivazioni.

I consumatori   cercano una difesa  informandosi  sulla provenienza dei prodotti e c’è tutto un proliferare di mercatini rionali; nel mentre è sparita sulle  etichette dei supermercati la provenienza locale e/o regionale a favore di un generico e sommesso” provenienza  Italy”.

È oggettivamente poco.

Viene da  pensare che i criminali ambientali sappiano bene dove comprare i prodotti non  inquinati; sapendone la provenienza da terre che non hanno devastato.

Potendo presumersi che abbiano spacci dove approvvigionarsi, anche a costi elevati; determinando – consapevolmente- , a maggior danno, una sperequazione sociale su una diversificata possibilità di  approvvigionamento ai fini nutrizionali.

O, i criminali ambientali  praticano la cultura Zen?  Coltivano, forse,  i loro orti nascondendoli alla collettività, in luoghi segreti, sicuri,  inaccessibili? A  loro beneficio e a beneficio dei loro cari sodali.

È, forse, loro  la filosofia della posternazione? Baciare la terra recitando la preghiera:  “Bacia la terra con i tuoi piedi. Imprimi sulla terra il tuo amore e la tua gioia. La terrà sarà al sicuro se c’è sicurezza in noi”?

 

 TORNA

 

 

il potere, morale e culturale

 

Il potere, morale e culturale, di determinare - in ogni ambito: sociale , politico, familiare - dovrebbe prendere  misura esclusiva  dalla dimensione dell’uomo, che possiede insita  la cifra dell’interesse ad operare.

Questo potere è la legittimazione ad agire; dunque, esercitare un determinato ruolo. Con l’autorevolezza  che proviene dai  valori individuali come bagaglio riconosciuto e riconoscibile nel tempo.

La perdita della autorevolezza determina la delegittimazione; ovvero, la perdita delle prerogative e delle funzioni del ruolo.

Se la delegittimazione può avvenire per cause imputabili a colui che la subisce, il più delle volte è funzionale a  esaltare singolari interessi in contrapposizione a quelli del delegittimando o delegittimato.

Si pensi ad un conflitto tra coniugi laddove l’uno delegittima l’altro sia nelle decisioni affettive dei figli o nelle cause di separazione conflittuali. Così tra politici , o artisti e via di seguito .

Manifestandosi due categorie di interessi : uno morale, l’atro particolare e/o economico.

Il termine è entrato prepotentemente nel lessico comune poiché la delegittimazione, vera o presunta,  è diventata una teorizzazione  per marcare contrapposizioni  all’avversario da isolare ed esporre alla pubblica piazza.

Così  il  “potere di”  si attua nella formula “potere a danno di”.

Venticelli e sussurri di calunnie, manipolazioni della verità dei fatti, interpretazioni di comodo, spergiuri sono alcuni dei mezzi per raggiungere lo scopo di delegittimare l’avversario; renderlo incredibile, privarlo di autorevolezza., quindi di consenso.

La perdita di legittimazione morale – riferita all’ambito politico -  comporta decisamente l’esclusione .

I regimi totalitari hanno attinto a questa metodologia;  usando forme di svalutazione personale, sociale e di gruppi o etnie fino al punto di ingenerare  conseguenze  inarrestabili quali conflitti, massacri e  stermini .

In un breve escursus di riferimenti basterà riportarsi alla “scomunica” (con la connessa – e più rilevante- perdita di interessi secolari), o alla inquisizione, o all’ostracismo e,  finanche,  alle caterinarie  di ciceroniana memoria.

Alla fine , per demolire un avversario, un “nemico”, finanche un oppositore, basterà delegittimarlo; anche soltanto insinuando.

 

 TORNA

 

 

la società ... vegetale

 

La società  è diventata, quasi,  un vegetale che si nutre artificialmente  di regole.

Accrescendo un  sistema di leggi che, di fatto, è diventato –diventa-   un sistema legalistico e paralizzante che  toglie iniziative e facoltà; che toglie la tensione ad  un mondo  al quale partecipare attivamente con la spiritualità che compete all’uomo.

Le regole servono per sconfiggere le ragioni.

Pretendendo una patente di verità - sacramentata in un limbo di tempo finito - per rimuovere ostacoli e per mantenere una visione  della organizzazione sociale subordinata  a finalità strumentali  che, attraverso la manipolazione del diritto “naturale”,  si allontana dai diritti.

Questo è tanto più vero per la diffusa corruzione di idee, di sentimenti, di moralità e, perfino, di legittimità 

Si porta a restringere, contrarre e ritrattare,  annullandoli,   anche diritti già acquisiti al patrimonio comune in una stupefacente  palinodia di Stato

Si avverte il progetto di un tentativo di “appiattimento verso il basso”. Con un processo di categorizzazione laddove se non si è  “negli elenchi  delle arti”, “negli elenchi dei mercati”, negli elenchi della politica” si è nella  impossibilità di esercitare - e vedere riconosciuta -   l’intera gamma delle proprie potenzialità.

La società delle regole  nega l’esistenza della straordinarietà individuale; che esce dal coro  di un gregge pilotato e strumentalizzato.

La società si manifesta con  elenchi di norme e di titoli  funzionali alla  dimostrazione di una realtà democratica che, viceversa, per quegli “elenchi”,  non  esiste. Una società che  sotterraneamente zittisce il dissenso e  isola  i “diversi”.

La società  normata non è tesa a individuare le libertà di pensiero.

Non può ;immaginare diritti umani in divenire.

I proponenti di pensieri “liberi”   devono attraversare  lotte e sofferenze.

Il mondo si accorge degli “eroi” soltanto “dopo”. A volte,  la morte serve per le sole  celebrazioni; orfane del  pensiero vivo,  lasciato in eredità.  

Una società che “aspira” ad appiattirsi sulle necessità primarie e sulla sopravvivenza,  delegittima costantemente la propria funzione.

Appiattendosi,  sapientemente pilota la corruzione; oggi, perfino,  oscenamente  esibita.

Il tutto  per introdurre regole che allontanino dal concetto di felicità. Principio non previsto nella nostra Costituzione;  dove, però,  non è esclusa l’infelicità.

I legalisti -gli intransigenti oltre ogni ragione, i falsi profeti della morale- all’opera da tempo,  sanno che  una società,  basata alla lettera sulla legge,  non permette di raggiungere traguardi elevati e non riesce a sfruttare l’intera gamma delle potenzialità  umane,  del pensiero che vive e  si evolve, delle visioni che si dilatano nelle  possibilità di esservi  e che si colora e contamina culturalmente  di altri diritti umani  possibili.

Intanto,  educano alla paura del disastro, dell’ignoto,  del baratro.

Pontificano e ciarlano, ingannando, : “ … sì, siamo delegittimati … sì hai ragione.  ti abbiamo tolto il sorriso e il futuro …  ti  derubiamo e ti tagliamo  i diritti … e perfino l’esercizio di quelli che ti avevamo garantito … sì, ti togliamo i viveri e ti trasformiamo in un esercito di straccioni urlanti, desiderosi di desiderare all’infinito la felicità …   ma senza di noi sarebbe il caos … non ti puoi liberare di noi … sei  in una morsa  letale! …”. Un incubo!

 

Rifletto …  scriveva Leopardi nello Zibaldone: “Solo quando la corruzione degli uomini appare definitiva, si avverte il bisogno di essere stretti da leggi, patti, obbligazioni che dovrebbero correggere quella corruzione”.

I legalisti hanno scuse per giustificare la propria corruzione.

 

TORNA

 

 

magistrati ed avvocati

 

nello svolgimento delle loro funzioni, magistrati ed avvocati sono chiamati entrambi a combattere la battaglia del diritto, nel dominio del suo contenuto di giustizia e nel rispetto delle norme e delle forme poste a tutela dei cittadini e delle umane personalità".

Queste parole venivano pronunciate da Enrico Pessina all’’inaugurazione della Biblioteca di Castel Capuano,nel  1896.

Prima c’era stato Don Pedro di Toledo che, proprio a Castel Capuano,  aveva creato la sede dell’amministrazione Giudiziaria con l’allestimento del Sacro Regio Consiglio,della Regia Camera della Sommaria, della  Gran Corte della Vicaria, con annessi  sotterranei che furono adibiti a prigioni.

Nel XVI secolo, durante il  viceregno di Don Pedro,  si edificò quella fortezza  di uomini, composta da avvocati e magistrati chiamati ad amministrare la Giustizia con logiche che avrebbero condizionato - e forse imbarbarito per sempre - il tessuto sociale del meridione accumulando e centralizzando  interessi con l’ “  accentrare la res publica in mano ai togati,”, quindi,   con   “esclusione del ceto medio e produttivo a favore di una classe sociale  che si arricchiva in modo parassitario di cause provenienti da ogni parte del regno.”

Avvocati e magistrati, appartenevano al medesimo ordine, i “forensi”,  la cui fortuna derivava in particolare dalla “imperfezione delle leggi”; come sostenne il Galanti.

Nel celeberrimo “Testamento forense” il Galanti,  assumeva, acutamente,  la necessità di procedere a riforme urgenti  nella struttura dello Stato;  riforme che dovevano prevedere, necessariamente, la vibrata condanna per gli arbitrii feudali e la proclamazione definitiva della perfetta  uguaglianza dei cittadini - e di ogni ceto sociale-   dinanzi alla legge.

Nonostante l’apporto di figure eccelse dell’Avvocatura e della Magistratura - che nel tempo hanno lasciato testimonianze di  vite poderose spese per la Giustizia - tutto appare, ancora oggi, maggiormente oggi, paralizzato in logiche antiche.

Il coronamento del sogno d’amore “dinanzi alla legge”  (metafora da “El amor en los tiempos del cólera”)  diventa  irraggiungibile per la Giustizia, al tempo della crisi.

I nuovi “forensi” sono quelli che si infiltrano -o vengono infiltrati- nelle istituzioni; per non cambiare, per mantenere, per   accentrare e difendere  interessi di lobbies  da un agire diverso.

I nuovi “forensi”  sono quelli che stanno a presidiare norme sulla prescrizione; quelli che garantiscono leggi personali; quelli che agiscono perché le leggi vengano disattese, ignorate o “impupazzate”.

I nuovi “forensi” sono gli operatori del diritto che vengono invocati un compiere un lavoro pulito e scientifico, nel rispetto della interpretazione delle leggi, ma , diverso, molto diverso,  dalla  applicazione nei tempi umani tollerati delle persone.

La tutela della Giustizia è campo di battaglia dove i contendenti provengono da due domini diversi: da un lato i politici, da un lato i magistrati e gli avvocati.

La Giustizia ai tempi della crisi subisce  il sovrapporsi confuso dei due domini e rimane senza presidio.

 

 TORNA

 

 

"non restate, perciò, donne ingegnose" 


 

Non restate, perciò, donne ingegnose, / di por la barca di virtude al scoglio: / lasciate l’ago, fatevi bramose / sovente in operar la penna e il foglio, / chè non men vi farete gloriose / di questi tai di cui molto mi doglio. / O state dunque attente in la lettura, / con somma diligenza e lunga cura.”.

Così  scriveva la poetessa Laura Bacio Terracina, nobildonna napoletana che non trascurava  di esortare le donne di “farsi bramose “ di letture; emancipandosi da ago e filo.

Non è l’unico esempio di poesia che si veste di denuncia sociale; le donne poetesse sia da posizione di privilegio sociale,  che da cortigiane o da mistiche hanno voluto e potuto additare e smascherare ipocrisie e vere  ingiustizie sociali.

La mistica Teresa D’Avila, con versi complessi e profondi,   affermò  la sua  concezione candida, ma rigorosa,  della fede e del  suo concetto di povertà arrivando a fondare   trentadue monasteri. Si rese invisa, per la sua intransigenza e austerità,  alle autorità ecclesiastiche fino al punto di essere denunciata più volte all’Inquisizione.

Che dire, poi,  della brutale prevaricazione di potere familiare esercitato da padre e fratelli di Isabella di Morra che ha lasciato versi di straordinaria intensità;  Benedetto Croce ne annovererà   i versi  nella poesia immortale.

La cortigiana Veronica Franco, dotata oltre che di bellezza, di  ingegno e cultura,  fornì – fornisce , ancor oggi -  un maliziosa  spaccato della posizione della donna nella società e nel privato:  “ E così noi, che siam di voi più sagge, / per non contender vi portiamo in spalla, / com’anco chi ha piè porta chi cagge. “. 

La donna nella poesia mostra  il coraggio di raccontare il suo destino e, insieme,  il coraggio di trasgredire a quest’ordine delle cose: “ So bene che le donne non dovrebbero scrivere; ciononostante,  io scrivo.”. La affermazione è di Marceline Desbordes Valmore,   poliedrica  cantora che si conquisterà, più tardi, la stima di Paul  Verlaine.

Le donne  anticonformiste  e il loro coraggio nella poesia di Elizabeth Barrett Browning, poetessa inglese che celebrò  l’amore  “ In quanti modi t’amo? Lascia che conti “ e,   nel contempo,  denunciò  la vergogna dello  sfruttamento minorile nell’opera “ lamento dei bambini”  ed esaltò i valori della libertà,   in una Italia oppressa dalla dominazione straniera,  ne “ I sonetti dal Portoghese ”.

La  poesia di denuncia parla nel mondo e per il mondo.

Per bocca di donne,  ieri come oggi,  come Joumama  Haddad: “Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà fosse una loro concessione / E ringraziassi e obbedissi / Ma io sono libera prima e dopo di loro, con e senza di loro / Sono libera nella vittoria e nella sconfitta / La mia prigione è la mia volontà! / La chiave della prigione è la loro lingua / Tuttavia la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio / E al mio desiderio non impartiscono ordini.”.

Le poetesse contemporanee parlano di anima e di isolamento, di luoghi e di miserie, di speranze e di dominazioni; usando  un efficace fondamentalismo civile per raccontare di omicidi dell’anima;

Gli ultimi fatti di cronaca - che hanno visto l’ennesima vittima di stupro in India, una donna quasi bambina, violentata e bruciata viva -  mi fa chiudere con le parole che usa  Marge Piercy per gli stupri di Missoula, rimasti impuniti: ” Non c'è differenza tra l' essere stuprata / e scaraventata giù da una rampa di scale / tranne che le ferite sanguinano anche dentro. / Non c'è differenza tra l' essere stuprata / ed essere investita da un camion / tranne che dopo gli uomini ti chiedono se ti è piaciuto. / Non c'è differenza tra l' essere stuprata / e perdere una mano in una falciatrice / se non che i dottori non vogliono essere coinvolti, / la polizia sfoggia un ghigno d' intesa / e nei piccoli centri diventi una puttana patentata. / Non c'è differenza tra l' essere stuprata / ed essere morsa da un serpente a sonagli / se non che la gente domanda se la tua gonna era corta / e perché tu comunque eri fuori. /  Non c'é differenza tra l' essere stuprata / e andare a sbattere dritta contro il parabrezza / tranne il fatto che dopo tu non hai paura delle auto / ma di metà del genere umano. / La paura dello stupro è un vento freddo che soffia ininterrotto / sulla schiena incurvata di una donna. / Mai girare da sola in una strada sabbiosa /in mezzo a una pineta; / mai salire su un sentiero che attraversa una montagna brulla / senza quell' alluminio nella bocca / vedendo un uomo arrampicarsi vicino. / Mai aprire la porta a chi bussa / senza un rasoio che escoria appena la gola. / La paura del lato in ombra delle siepi,  / del sedile posteriore dell' auto, / della casa vuota che fa tintinnare le chiavi come un avvertimento di serpente. / La paura dell' uomo che sorride / con un coltello nella tasca. / La paura dell' uomo contegnoso / nel cui pugno c'è astio sottochiave.

 

TORNA

 

 

la grande bellezza o la grande lentezza

 

La grande bellezza o la grande lentezza?

L’VIII congresso dell’OUA (Organismo Unitario dell’Avvocatura)  - che si è tenuto nella straordinaria cornice di Castel Capuano - ha mostrato, come nel  film di Sorrentino,  decadenza e opulenza,  mistificazioni e  contraddizioni;  una scolorita visione della realtà tra autocelebrazione ed estetica, tra  autoreferenzialità e   drammaticità  della realtà dell’Avvocatura “operaia”.

Avvocatura “operaia”  che si trova a vivere una violenta  esclusione sociale studiata e perseguita con  lucidità e  scientificità inquietante dai “ padroni che dettano le regole”.

La critica non ha toccato, l’attività degli avvocati lobbisti. Quegli avvocati “massimalisti” che annoverano,  come clientela,  banche, assicurazioni,  enti economici,  lobbies di varia configurazione e   provenienza  e che ne rappresentano –nella  decadenza di valori etici - gli interessi;   fruendo della lungaggine, della inefficienza, della farraginosità  dei bizantinismi del sistema giustizia. Avvocati che  operano con le “spalle coperte”  dalla immensa capacità economica pervasiva e persuasiva dei loro potenti clienti;  a discapito di cittadini assistiti  dagli Avvocati “operai, forti solo di  coraggio.

Sembra quindi accentuarsi e scatenarsi, come dire, una “lotta di classe” all’interno dell’Avvocatura tra abbienti, con rendite di posizione professionale, ed “operai”,   il cui lavoro professionale è dedicato ai singoli cittadini ai quali è stato sottratto, con l’aumento delle spese processuali, quel minimo di diritti dei  quali si nutre la democrazia.

Classi dell’Avvocatura che non sanciscono diversità di sapere, di impegno, di garanzia nella  quotidianità della difesa,   nei  tanti giorni di attività giudiziaria.

Credo che la incipiente “lotta di classe” riguarderà la disciplina e la deontologia; riguarderà, ancor più,  l’obbligo di verità, molte volte disatteso,  che investe  lo  stesso presupposto di ordine pubblico processuale,  esaminato alla luce dei tanti episodi di corruzione che la cronaca giudiziaria ci racconta   costantemente.

Si può temere, che la corruzione - che ormai travolge ogni aspetto della vita quotidiana -  si riversi ancor più sui  cittadini;  utenti incolpevoli,  pagatori sanguinanti  della malagiustizia, della malapolitica, della malasanità e della malavita - intesa come disagio esistenziale ed  emarginazione sociale -.

L’Avvocatura deve prepararsi - con dedizione e nonostante tutto - a combattere le arguzie strumentali e le raffinatezze  bizantine; con abnegazione,  trasparenza ed equidistanza; senza sconti. 

La  Magistratura, nel contempo,  dovrebbe, forse,  fare una sana autocritica delle sue proprie inefficienze; atteso che nelle patrie galere languono esseri umani in attesa di giudizio, che vi è un contenzioso arretrato spaventoso in quasi tutti i settori del civile (in quello contabile si contano “pensioni di guerra” ancora in corso).

Si può ritenere opportuno che si modifichi  il metodo di autoreferenzialità della Magistratura;  ritornando a commissioni che valutino l’attività e il merito del singolo Magistrato? ( non è concepibile che per un ritardo di 2246 giorni, pari a sei anni, per il deposito di una sentenza  sia stata comminata una “perdita di anzianità di 25 giorni”). 

Mi dissocio, come molti altri Avvocati,  dalle dichiarazioni di contestazione preannunciate: ovvero, l’astensione dalle udienze.

È, a mio avviso,  una misura inefficace, ibrida, inutile che favorisce il  burocratismo che si vuole combattere.

Si ottengono solo lunghi  rinvii  dei  procedimenti, con danno ai cittadini, parti processuali,. Quegli stessi cittadini che l’Avvocatura afferma di voler tutelare.

Occorre coerenza.

 

TORNA

 

 

le donne

 

Le donne, la dea della fertilità,  la dea dell’abbondanza  e della natura,  la dea dell’amore  e della sessualità  tanto celebrate  e rappresentate  nell’armonia  della natura nell’arte  ieratica  antica  sono state trasformate ed intese quali  soggetti da umiliare, svilire,  ricattare, sopportare.

Una sorta di  “bandite dell’utero”:  donne, danno e dintorni  nella strumentale indignazione degli uomini e delle stesse donne.

Non è un caso che le quote  rosa  vengano percepite come una diminuzione  e uno sfregio. Un controsenso: le donne  non vogliono contare e contarsi. Donne  acculturate   dichiarano:   “non siamo animali in via di estinzione da salvare come patrimonio dell’umanità, non siamo una specie da  accudire  con modalità paternalistiche.”

Nel mentre le femministe  francesi  si sono ribellate alla cultura  della memoria che celebra soltanto  gli uomini illustri , sepolti nel  Panthéon  denunciando un  anacronismo imbarazzante; un simbolo “monumentale”   della disparità tra i sessi, nella società.

Le femministe francesi si sono dedicate, finanche,  a promuovere  una consultazione  on line alla quale hanno partecipato con entusiasmo  trentamila francesi.  Questa è la forza delle idee,  delle provocazioni, delle iniziative, della curiosità  storica, della inventiva. 

Diversamente, in Italia, con interesse palese o subdolo,  si registra una pericolosa visione “biodegradabile”  della figura femminile;  intendendola come un  problema marginale e fastidioso che si può – anzi, è doveroso -   emarginare e ridimensionare:  “biodegradare”, appunto.

Il gesto dell’on.  Dambruoso, che percuote al collo e  spintona la cittadina Lupo, assume valore simbolico del gesto di violenza repressa,  tipicamente maschile.

Ma, anche la signora Dell’Oglio, di contro, si esibisce in affermazioni quali “ meglio le olgettine che le sceme di sinistra che scopano gratis “  per, poi,  aggiungere … “ma è pieno di donne di sinistra che scopano i parrucconi per vedersi pubblicati i libri“.

Si deve, ancora, ascoltare un  Presidente della Corte di assise di Appello, dichiarare  - all’indomani della sentenza di condanna nei confronti della Amanda Knox e Raffaele Sollecito - :  “... se Amanda fosse andata a lavorare, probabilmente l’omicidio non sarebbe mai successo. Non si sarebbe creata questa occasione … “; riconducendo a  noia esistenziale (di una donna) le motivazioni del delitto!

Occorre notare che anche la giornalista, signora Palombelli,  ha manifestato  un  affondo, senza  dubbio  inopportuno,  durante la trasmissione “Quarto Grado” con il  riconnettere la sentenza di condanna  alla bellezza della Knox ;  anche in  confronto , svilente,  con la vittima, definita “bruttina”.

Imbarazzanti – non altrimenti si possono definire -  le registrazioni trasmesse  nel corso del programma  “Chi l’ha visto?”  riferite ad  una giovane  donna scomparsa,  poi ritrovata morta,: “Quella puttana scomparsa … questa è una puttana. E’ una zoccola ed ora non ce ne possiamo fottere perché c’è “Chi l’ha visto?” che se ne occupa.  … Il padre poi rompe sempre i coglioni in caserma …”.

Donne e uomini che, per proprio interesse ed in spregio alla femminilità - alle stesse donne – si mettono  in  fila per vedersi  pubblicati  panphlet  sulla condizione femminile. Una interminabile attesa di finissime/i e raffinatissime/i  intellettuali , di destra e di sinistra, di sotto e di sopra, di   politici  ed  ex politici, di  ex magistrati, di  ex servizi e, perfino,   di condannati pentiti delle proprie furie omicidiarie.

Se le donne italiane non vogliono comprendere  l’urgenza di esserci e di  determinare il sociale e il politico,   di affermare  la propria dignità,   mi trasferisco, idealmente,   in Francia.

 

 TORNA

 

 

accattatavelle

 

“Accattatavelle!”, diceva Sofia Loren; in uno spot pubblicitario girato anni fa  per una marca di mortadella.

Per le finanze dello stato, la necessità di fare cassa è diventata una urgenza. Si procede a dismissioni, svendite e privatizzazioni per contenere un  deficit che si è accumulato per anni. Una nazione, una famiglia, finita  in mano a strozzini nazionali e internazionali,  speculatori e pescecani in odore di sangue.

Un freno, a tutto ciò,  che dovrà essere posto nei programmi del nuovo governo, dai nuovi ministri e dalle nuove compagini di contorno,  esautorandone i guardiani che fanno del burocratismo  il contemporaneo modo di manipolare  la democrazia.

La burocratizzazione della vita civile, e il parassitismo politico sono legati e interdipendenti e rappresentano una vera malattia dei paesi democratici. Secondo Tocqueville:  “possono generare forme impressionanti di distruzione di risorse e di ricchezze , possono portare  all’asservimento di intere popolazioni, possono portare al collasso di grandi aggregazioni politiche e di intere civiltà

La estrema burocratizzazione che ognuno percepisce nella  vita civile, quasi negli atti quotidiani  della vita  sociale,   va a braccetto con quella paralisi che serve ad  occultare  responsabilità personali o di gruppi di diversa umanità fatta di funzionari manager, lobbisti e burocrati accumunati dal  concetto “tutti colpevoli, nessun colpevole”, ormai divenuto un mantra.

Il vero cuore pulsante del potere governativo sono le strutture burocratiche – esterne ed interne -  a cui si affidano i politici per competenze tecniche e per relazioni di potere. Sono i burocrati, inamovibili; i veri depositari della stabilità o instabilità;  capaci di ingabbiare, paralizzare, creare ostacoli, far cadere governi o tenerli in carrozzella. ˂i burocrati, in specie la massa dei gradi superiori, costituiscono una classe sociale, con interessi propri, diversi e contrastanti con quelli di altre classi, che essi credono di meglio tutelare attraverso la stabilizzazione delle istituzioni in atto e dei loro rapporti con le forze politiche" (Gallino, Dizionario di Sociologia, Utet, 1978, pag. 82) ˃.

La “patologia burocratica” oggi si è estesa finanche fuori dai settori che le erano statisticamente attribuiti; esportata, come appare evidente, in ogni settore. Gravemente, anche in quello dell’amministrazione della giustizia. Quella dove operano, oramai,  i “lobbisti burocrati” che, esasperando e utilizzando  il formalismo giuridico, producono perdite di valori etici e malagiustizia.

Il burocrate patologico si autocompiace,  ripiegato  sul potere e sul valore degli "atti" e della "carta" e, a dispetto della chiarezza;  si specializza in tortuosità  che necessitano di rimozioni.

Rimozioni che dovrebbero  essere un obiettivo primario per ogni società democratica, per ogni governo.

 

TORNA

 

 

la donna ingombrante

 

La donna nella storia è ingombrante per la sua figura e il suo ruolo,   poiché la percezione, a volte conflittuale,   tra corpo spirituale (emotività) , corpo fisico (passionalità) e corpo mistico (procreazione) , è  fonte di troppe combinazioni complesse che si tentano di  semplificare o, forse, più gravemente,  banalizzare per riceverne meno problematiche e averne meno disturbo.

La donna,  nelle categorie nelle quali viene catalogata, più o meno inconsciamente rivendica,  soprattutto,  il diritto a pari dignità, pari opportunità con eliminazione di tutte le discriminazioni legate a sesso, religione colore della pelle (discriminazioni  che,  ancora oggi,  sono fonte di emarginazione).

Si possono comunque leggere  della  storia   della donna alcuni passaggi  con evidenza di grandi personalità che hanno  dato impulso  a condizioni sociali  in discussione nella modernità.

Invero fin dal Paleolitico  una divisione di compiti  ha emarginato la donna a ruolo subalterno: il passaggio dalla ortocultura  alla agricoltura intensiva con l’uso della forza animale si ritiene abbia  tolto alle donne  il potere  di controllare e gestire le risorse necessarie alla sopravvivenza della  comunità,  passata da una dieta a base vegetale a quella della selvaggina cacciata dagli uomini.

Ma, già nell’Europa medioevale vennero poste le basi della modernità sociale-psicologica del femminile da Eloisa (nelle lettere ad Abelardo), poi da  Katherina Hetzeldorfer (per il processo che la vide coinvolta,  causa “relazioni femminili”) ovvero da Margherita d’Austria, duchessa di Savoia e reggente dei Paesi Bassi (tre volte sposata e  giunta alla gestione del potere) , e, ancora, da Marguerite Porete (andata al rogo  e partecipe del movimento delle “beghine”, 'associazione di donne che si dedicavano alla  vita religiosa senza prendere i voti monastici).  

Si annota che una visione negazionista e  oltremodo misogena viene da  contributi recenti forniti da  sociologi che trovano  seguiti discutibili e imbarazzanti da parte di uomini che protestano la  loro marginalità rispetto ad un mondo incentrato fortemente  su un  presunto  “potere” femminile. 

Invero, secondo Warren Farrell,   la donna riceve protezioni speciali poiché passa dalla potestà patriarcale a quella maritale e, poi,   statale; da questa   ricevendone  privilegi,   poiché il legislatore  diventa un surrogato del guru e poi del  marito.

Qui una nota:  leggendo Farrel,  la donna è più ricca non solo perché  quando la si porta a cena non paga, ma,  anche,  perché, vivendo più a lungo dell’uomo,  eredita ed accresce, in tal modo,  il suo potere economico.

Ah,  gli uomini fanno lavori più duri  - finanche la guerra, morendo per la patria - ancora una volta a beneficio delle donne!

E, poi, bisogna riflettere che le donne uccidono  più degli uomini perché, usando veleni,  non vengono scoperte;  potendo, finanche permettersi una manovalanza sottopagata e criminale per far commettere  omicidi su commissione.

Tutto vero?

 

  TORNA

 

 

fermata del bus

  

Alla fermata del bus  ho avuto occasione di  osservare,   per un mese,  una persona nei pressi di un semaforo di  via Marina.

Era magro, sulla  cinquantina d’anni. Agile,  portava  sulle braccia una serie di pacchi di fazzolettini di carta che, appena il semaforo segnalava il rosso e le auto si fermavano,  lanciava sui parabrezza come se giocasse a frisbee.

Si muoveva come invasato perché il suo scopo sembrava il movimento in quanto tale non il tentativo di vendere la sua merce.

Allo scoccare del verde  riprendeva, correndo, il suo percorso a ritroso con movimenti acrobatici, felini,  nel tentativo di recuperare nuovamente la merce;  a dispetto della velocità delle auto in ripartenza nervosa.

A volte, una inutile corsa.

Raccoglieva i fazzolettini,  che non riusciva a recuperare a volo,  in terra;  schiacciati dalle ruote. Altri li perdeva  perché,  rimasti in bilico sui parabrezza,  accompagnavano i conducenti alla loro meta.

Un muoversi inutile, una strategia perdente.

Mi  colpiva il suo  agire  meccanico;  come se fosse oggetto e insieme vittima di una sperimentazione da laboratorio  il cui scopo fosse  calcolare l’energia impiegata in relazione ai  tempi occorsi tra distribuzione e raccolta. Con statistica dei  pezzi venduti anche in presenza di tale anomalo tentativo a di vendita.

Ma quanto tempo può resistere un uomo alle intemperie e per quanto tempo può  sopravvivere a quell’andirivieni spasmodico, senza costrutto?

Un giorno scomparve;  non l’ho più rivisto.

Mi è rimasta  la sensazione che non riuscisse ad uscire da una sofferenza, da una gabbia; tentando di superare, forse  a suo modo,   lo smarrimento e l’insuccesso  ignorandolo ostinatamente.

Mi viene in mente una espressione popolare: “ ccà nun  nce ‘a facimme cchiù,  facimme ‘e bôtte co’ ’i ppère”

Per chi ignora la forma dialettale la traduzione/interpretazione   è: “ qui non ce la facciamo più, siamo costretti a battere i piedi e fare rumore”.

Il contenuto  filosofico  è, invece,  più complicato e,  perfino,  allegorico: “non abbiamo energia per sopravvivere, facciamo rumore con i piedi per segnalare la nostra esistenza, il nostro disagio”.

Il rumore è un segno di presenza, di dissenso, di rottura, di protesta,  di  discontinuità e di allarme.

Luigi Russolo,  nell’idea espressa nel manifesto  futurista del rumore,  arrivò a costruire e brevettare  un rumorarmonio; una specie di amplificatore dei suoni/rumori;  pensando ad una musica che dovesse  utilizzare non solo i suoni, ma anche  i rumori che costituiscono   il sottofondo dell’esistenza umana.

Russolo  arrivò a dirigere  un vero concerto;  con tutti gli intonarumori da lui inventati e suddivise  gli esecutori in : gorgogliatori, crepitatori, ululatori, rombatori, scoppiatori, sibilatori, ronzatori, stropicciatori, scrosciatori.

 

Ma l’uomo dei kleenex, al semaforo rosso di via Marina, era silenzioso.

 

TORNA

 

 

si parla di politica

 

Al mercato stamattina si parla di politica.

(il dialogo si è  svolto in napoletano; lo riporto tradotto letteralmente,  per la piena comprensibilità)  

 

- adesso vi faccio vedere che Berlusconi muore!

- altro che pedofilia e compagnia bella, ha finito di darsi da fare

- ma voi lo vedete cambiare i pannoloni e medicare e lavare i vecchi?

- lo deve fare per forza

- lo fanno morire, ve lo dico io! 

- lui ha fatto soltanto bene a tutti … faceva beneficenza a tutti

- ma quale beneficenza? di  quale  beneficenza parlate? … voi siete di Berlusconi …  basta parlarne … lui la beneficenza la faceva a se stesso … basta , ora!

- ma  quello che c’è ora a chi fa beneficenza?  quattro soldi a quelli che lavorano? 

- e i disoccupati?  pure quello dice  di fare  beneficenza  e aiutare la gente … ma quando mai, signora, … quello è un ragazzino che promette e non mantiene

 - ma perché hanno levato la cittadinanza? come dice … come si chiama quello … ?  la cittadinanza faceva comodo a chi non aveva niente!

- voi la avete mai percepita la cittadinanza? 

- no! io ho la pensione … ne ho diritto … ma ora ci tolgono anche questa e …  buonanotte …

- i terreni … perché non danno le terre per far lavorare …  quante  ce ne sono …

- pulcinella con un percossa alla volta, uccise la moglie …

- adesso vi faccio vedere che Berlusconi lo uccidono ... muore!

 

Un dialogo di diretta derivazione televisiva, quella dei talk show  e della rissa, delle parole gettate in faccia all’interlocutore e allo spettatore senza averle soppesate ma solo spettacolarizzate;  finanche con finali a sorpresa, frutti di elaborazione  di tutto quello  che è stato spacciato  per modernità e progresso.

Ho pubblicato (nella mia rubrica DIVERSAMENTE ITALIANI) un parte dell’intervento di Basso alla Assemblea costituente: ”  … oggi la società non si può considerare una somma di individui, perché l'individuo vuoto non ha senso se non in quanto membro della società. Nessuno vive isolato, ma ciascun uomo acquista senso e valore dal rapporto con gli altri uomini; l'uomo non è, in definitiva, che un centro di rapporti sociali e dalla pienezza e dalla complessità dei nostri rapporti esso può soltanto trovar senso e valore.

I  nostri Padri fondatori  (che dovevano prendere distanze da regimi devastanti, creare le basi, attraverso il lavoro, per una società più giusta coniugando potere  dello Stato e libertà individuali)   immaginavano una società formata da individui che percepivano la missione di essere parte della vita associata, vero centro dei rapporti sociali.

I bisogni fondamentali dell’uomo sociale, nella sua complessità, diversità, singolarità     sono stati rispettati oppure si è privilegiata una omologazione  appiattita spacciandola per destinazione sociale dell’individuo?

La società rurale e analfabeta del tempo non poteva porsi il problema  della individualità, complessità ed egoismi dell’essere umano, si doveva formare una nazione. 

L’uomo e le sue complessità sono compatibili con l’uomo sociale?

Una democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. E’ prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza comunicata e congiunta. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano ad un interesse in modo che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri….” (John Dewey)

Gli altri sono una “necessità di fatto”, affermava  Sartre; e Freud sosteneva: “L’individuo conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendentemente dal suo volere … ”.

Questa visione psicanalitica ci porta a riflettere  ancora una volta sulla prospettiva politica  della democrazia, un luogo dove riaffermare che il mondo composto da individui,  con uguali diritti davanti alla legge, deve  superare egoismi  e individualismi che bloccano costantemente questo percorso.

Pure, non è sufficiente per una risposta adeguata

“perché non danno le terre ai disoccupati per farli  lavorare” … e rifletto: ma è la necessità ignorante o la cultura che promuove idee sociali?

 

 TORNA

 

 

ho incontrato personaggi di varia natura

  

Nella mia vita sociale, professionale e personale ho incontrato, a volte semplicemente incrociato –forse, solo odorato -,   personaggi di varia  natura.

Richard, William, John,  Robert e, qualche  volta,  anche  Peter o  Walter  ( nomi rigorosamente medievali,  inglesi,   del XIV secolo).

Personaggi mistificatori, sfruttatori, millantatori, bugiardi,  corruttori  conclamati o occulti (la cui verginità  è più   subdola di una peste bubbonica ), nonché  ignavi, lestofanti,  professionisti rotti a  una visione di vita, fatta di  inganni e profitto;  insomma:  carogne vere!

Occorre  riflettere che il significato metaforico di “carogna”, nella lingua  italiana,  è indicativo, generalmente,  di persona losca, abietta,  che usa le sue peculiarità (negative) per ricevere  un lucro, di qualunque natura.

Nella lingua napoletana la traduzione di “carogna”  si contestualizza in variabili  identificazioni sociali; espressa, peraltro,  nella  cadenza  adottata per la pronuncia: si vorrà così, di volta in volta,  indicare il dispotico o il turpe o il violento o il gagliardo e finanche, il maliardo,  nella seduzione amorosa.

La cronaca e la conoscenza individuale si sono oggi  contaminate e mescolate e si fa  estrema e inutile fatica a  ricondurle ai  fatti,  nelle loro connessioni tra relazioni e realtà (giuste o ingiuste, legali o abusive); cronaca o mitizzazioni di un discorrere necessario o opportunamente orientato.

“genny ‘a carogna”, pseudonimo del Signor Gennaro De Tommaso (non altrimenti, se non pseudonimo,  può essere considerato “genny ‘a carogna” per l’identificazione della persona, che ne deriva) ha usufruito di una promozione diffusiva per l’uso che ne hanno fatto i mass media, pure nell’esercizio del diritto di cronaca.

Un logo, un valore economico,  un valore, volente o nolente, penetrato nel  mercato globale.

Al  diritto di tutela del nome e  dell’immagine - che si configura come diritto a vedere riconosciute le proprie caratteristiche individuali socialmente percepite o conosciute - lo pseudonimo riceve le  stesse garanzie di cui all’art. 7 cc , nonché dalla legge sul diritto d’autore.

“genny ‘a carogna” potrebbe, finanche,  essere registrato come logo,  come marchio garantito, a prodotti e servizi, dal codice  civile all’art. 2569.

Usufruendo della promozione già ricevuta, si potrebbero, conseguentemente, produrre  caffè sportivi “genny ‘a carogna” o, per la conseguita fama internazionale, “genny ‘a carogna” potrebbe  prendere il posto di Blaine - ultimo fidanzato di Barbie che ha già sostituito Ken, surfista tiepido e indeciso -  per approdare ad una possibile immagine/ipotesi  di mercato:  un verace  tifoso?

Per ora, di certo,  si prepara a ricevere un posto d’onore tra le statuine del  presepe a S. Gregorio Armeno;  in nome di quella nota, malinconica,    disincantata  napoletanità; i turisti, passeggiando per il centro storico,   diranno:” very pittoresco”!

Strumentalizzato  o commercializzato,  con il marchio “genny ‘a carogna”  saremmo nel mondo globalizzato della nostra terza  repubblica,   del 2014 A.D.

 

 TORNA

 

 

perchè una società vada bene

  

Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere”  ( Giovanni Falcone)

 

Giovanni Falcone e  Francesca Morvillo,  Paolo Borsellino, Agostino Pianta, Pietro Scaglione, Francesco Ferlaino,  Francesco Coco,  Cesare Terranova, Mario Amato,  Gaetano Costa, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Bruno Caccia, Rocco Chinnici,  Giuseppe Di Lello,  Alberto Giacomelli, Antonino Saetta (con il figlio Stefano), Rosario Livatino, Antonio Scopelliti  e poi Antonio Occorsio, Riccardo Palma, Girolamo Tartaglione, Fedele Calvosa, Emilio Alessandrini, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli  e con loro le donne e gli uomini delle scorte: Antonio Lorusso,  Giovanni Saponara e Antioco Diana Mario Trapani e Salvatore Bartilotta Vito Schifani, Lenin Mancuso ,Rocco Dicillo e Antonio Mortinaro, Emanuela Lisi, Vincenzo LiMuli, Walter Cosina e Claudio Traina.

 

Questi nomi scorrevano su un maxischermo, nella “Piazza Coperta” del Tribunale di Napoli.

 Una installazione inconsueta nell’evento promosso dalla Giunta Distrettuale della Associazione Nazionale Magistrati , di cui, Presidente,  la Dott.ssa Silvana Sica.

 Un evento senza alcuna pretesa di becera commemorazione. Senza palchi e prime fila.   Privo di slogans,  di distanze e di distingui. Una aggregazione di persone che si avvicinavano, consapevoli della gravità di quelle morti che interessano  l’intera collettività. Aprendo una riflessione sottile,   non sbandierata  né strumentalizzata,  ricordo   che deve impegnare responsabilmente ciascuno, Magistrati, Avvocati, Cittadini.

 La Dott.ssa Sica ha anticipato i brevi ritratti che ricordavano ciascuno degli scomparsi ad opera di giovani Magistrati – in un passaggio emblematico di consegne-  rilevando il loro essere stati cittadini, cittadini-magistrati: “si consideravano persone comuni “ e come tali protesi alla difesa dello stato democratico e costituzionale”.

 I brevi ritratti degli uccisi da  mafie e terrorismi  ( di varie sigle e provenienza ma accumunate dalla stessa sprezzante  noncuranza  della vita altrui)  rendevano tangibili, rinnovavano,    la fisionomia   di uomini, padri, mariti, figli,  figure di cittadini che stavano semplicemente svolgendo il loro dovere con rigore ed onestà.

 La commozione  è stata palpabile, con voci  sommesse accompagnate da ricordi personali:  “ognuno di noi ricorda cosa esattamente stava facendo in quel momento”. A rimarcare che, dopo,  nulla era stato, è stato,  come prima. 

 Un evento “da strada” , “da piazza” che ha reso una dignità di uso a “Piazza Coperta”, facendo rilevare la sua possibile funzione a piazza dell’ “agorà”  dove far emergere tra Magistratura e Avvocatura – molte volte criticamente in contrasto, anche interpretativo delle norme – un possibile luogo di pratica delle comuni risorse culturali ed etico/sociali.

 

I miei occhi giacciono

in fondo al mare

nel cuore delle alghe e dei coralli.

Seduto se ne stava

e silenzioso

stretto a tenaglia

tra il cielo e la terra

e gli occhi

fissi nell’abisso.

 

(Peppino Impastato – giornalista e poeta , ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978)

 

TORNA

 

 

una proposta

 

Per una osservazione del mutamento sociale intervenuto  e del fenomeno delle  nuove comunicazioni   non si può non evidenziare che, nel progressivo stravolgimento tecnologico,  si viene a manifestare una qualche  difficoltà - e finanche rifiuto- della Avvocatura anziana a rapportarsi con le nuove conoscenze e possibilità.

Occorre ipotizzare significative integrazioni tra la cultura tecnologica, l’esperienza professionale e i nuovi modelli processuali;  anche nella più vasta applicazione del processo telematico che potrebbe  ricevere una spinta concreta alla sua auspicata  realizzazione.

Quanto sopra,  varrà  ipotizzare  una figura obbligatoria: quella  del responsabile del procedimento telematico; con competenze altamente qualificate, in grado di favorire, sostenere, concentrare e accelerare sia la fase preliminare, che quella processuale delle liti.

A ciò non può non coniugarsi il tema dell’avviamento professionale dei praticanti avvocati; costretti, il più delle volte, ad una attesa estenuante della affermazione di una attitudine  che, spesso, si esaurisce a causa di impossibilità economiche a sostenere la necessaria esperienza culturale e pragmatica,  ovvero  per  un approccio privo delle opportune, minime, competenze;  finanche sviliti   in un   lavoro di “segretariato” per il dominus.

La presente proposta vuole rappresentare uno stimolo di riflessione su una praticabile ipotesi di riconoscere e sostenere competenze scientifiche e  culturali;  soddisfacendo attività necessarie nell’ambito dei nuovi scenari tecnologici e, finanche, nelle nuove geometrie degli uffici giudiziari.

Una proposta atta a creare sia un  sostegno operativo qualificato a quanti, avvocati,  non riescono o non vogliono condividere le ormai obbligate pratiche tecnologiche (così estraniandosi e/o esautorandosi dall’attività forense), quindi ampliandone  i margini  di operatività, sia,  ancora, a delineare una figura intermedia; utile a dipanare il broglio di un contenzioso ormai in eccesso che grava sulla Magistratura.

Consentendo, peraltro,  alla giovane avvocatura un percorso privilegiato e retribuito; nella ricerca e nello  studio delle forme interpretative e istitutive del diritto, corrente e futuribile.

 

La proposta si sviluppa su questi punti:

a- Costituzione di un “Albo dei Responsabili del Processo Telematico”, albo curato dai Consigli degli Ordini Territoriali, con accesso dei praticanti  avvocato  previo esame attitudinale alla tecnologia giuridica,  vertente sulla  conoscenza specialistica della informatica,  con riferimento al processo telematico,

b- Obbligo di nomina del  “Responsabile del Processo Telematico”, da parte degli Studi che ne usufruiscono, per la durata del periodo del praticantato; con previsione dell’attribuzione di crediti formativi,

c- Onere per gli Studi di comunicare e nominare, presso le Cancellerie Giudiziarie,  il “Responsabile del Processo Telematico”, come da Albo, accreditandone le competenze e funzioni,

d- Retribuzione mensile con quantificazione  determinata dal Consiglio Nazionale Forense; con previsione di defiscalizzazioni per gli Studi  e di sostegno finanziario per incentivi,  a favore della occupazione giovanile e dall’avviamento al lavoro, stanziati su progetti di sviluppo di leggi  nazionali e/o regionali.

 

TORNA 

 

 

Olympe de Gourges

 

Nel 1791 Olympe de Gouges pubblicava   la “Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne”.

La Dichiarazione di Olympe de Gouges, pure   modellata sulla  “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” -del 1789 - era mirata a evidenziarne  e colmarne le lacune laddove si manifestava la  esclusione delle donne;  non solo dai principi di libertà e uguaglianza protestati dalla rivoluzione ma, finanche,  emarginandole da una serie di diritti:  dal voto, all’accesso alle istituzioni pubbliche; dalle libertà professionali, ai diritti di proprietà.

La” Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne”  è un  atto di accusa, moderno ed estremamente  attuale rispetto alla cronaca che ci allarma, ci  opprime, ci indigna  ogni giorno.

Uomo, sei capace d'essere giusto? È una donna che ti pone la domanda; tu non la priverai almeno di questo diritto. Dimmi? Chi ti ha concesso la suprema autorità di opprimere il mio sesso? La tua forza? Il tuo ingegno?

La lungimiranza di Olympe, il suo coraggio, la sua determinazione si scoprono  nella visione che aveva della società e del ruolo della donna all’interno di essa.

Il suo pensiero spaziava da  un sistema di protezione delle madri e dei bambini- con riconoscimento anche dei figli  nati fuori dal matrimonio- ,  alla  creazione di alloggi per i non abbienti; da  ricoveri dignitosi per i mendicanti, a osservatori  per combattere la disoccupazione: una protezione sociale e finanche  l’ipotesi di un regolamento contrattuale per i concubini e  lo scioglimento dal matrimonio (introdotto dopo la rivoluzione).

Olympe oserà, prima,   sfidare Marat,   poi,   Robespierre; accusando quest’ultimo di mirare alla dittatura con  l’introduzione di leggi contrarie alla libertà di pensiero e, dunque, ai principi repubblicani.

Per questo  “guadagnandosi”  la condanna al patibolo,  decretatale  dal   tribunale rivoluzionario, in uno con  la condanna morale per aver “osato”  pretendere pari dignità di  vita  e  di morte.

Invero  il  procuratore del comune di Parigi  consegnerà alla storia non solo la esecuzione di Olympe, ma anche l’ammonimento “ ha dimenticato le virtù che convenivano al suo sesso” con un commento irridente, ad esecuzione avvenuta,: “Olympe de Gouges, nata con un’immaginazione esaltata, ha scambiato il suo delirio per un’ispirazione della natura:  ha voluto essere un Uomo di Stato. Ieri la legge ha punito questa cospiratrice”.

Quanto  queste parole si congiungano, pericolosamente,  a quanto affermato da un uomo accusato di maltrattamenti  è significativo e impressionante: “ la violenza è solo una scorciatoia”!

E la “cospiratrice”  aveva scritto “La libertà e la giustizia consistono nel restituire tutto quello che appartiene agli altri; così l'esercizio dei diritti naturali della donna ha come limiti solo la tirannia perpetua che l'uomo le oppone; questi limiti devono essere riformati dalle leggi della natura e della ragione”.

A ben vedere con lungimiranza poiché, se da un lato professava l’uguaglianza nei diritti sociali, contemporaneamente rivendicava le peculiarità delle differenze armoniose; differenze armoniose  che oggi, non a caso,  appaiono “ripensate” non  già  sui modelli  della omologazione a tutti i costi, ma sulle differenze.

La parola “sesso” viene oggi sostituita dalla parola “genere”;  come qualcosa che si costruisce indipendentemente dalle identità sessuali.

L’invito a guardare alla natura e all’identità (oggi: Steven E. Rhoads),  per allontanarsi dall’arroganza del modello unico e predatorio maschile,  viene ancora dalla “cospiratrice” denunciato e sollecitato  con queste parole: “Osserva il creatore nella sua saggezza; scorri la natura in tutta la sua grandezza, di cui tu sembri volerti raffrontare, e dammi, se hai il coraggio, l'esempio di questo tirannico potere; Dappertutto tu li troverai confusi, dappertutto essi cooperano, in un insieme armonioso,  a questo capolavoro immortale” .

Oggi,  opponiamo, all’oscenità del modello unico,  la differenza qualificata. Basterà?

 

 TORNA

 

 

una geriatria della democrazia

 

Sopravvivono,  in capo alle Camere e al Senato, prerogative, nate per garantire i diritti di sovranità  dello Stato da qualsivoglia interferenza  o “attentato” anche da parte del potere giudiziario.

Tali prerogative si definiscono “autodichie”; e sono delle potestà di autogiurisdizione.

Nel tempo sono  diventate  una sorta di territorio inespugnabile -dominato da  privilegi,  gestito dai parlamentari-   dove si decidono assunzioni,  trattamenti di lavoro, pensionamenti, riguardanti  dipendenti di Camera e Senato e non solo.

Si è discusso sulla compatibilità ai principi costituzionali che garantiscono diritti di uguaglianza, di difesa e   la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi senza esclusioni o limitazioni a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.

Il quesito sulla effettiva  imparzialità di tali organismi è stato sollevato a più riprese  e numerose sentenze innanzi alla Corte Costituzionale e alla Corte di Cassazione hanno sempre ribadito la conformità e legittimità degli  organi di autodichia ritenendo   che,  pur   composti da deputati,    questi ultimi  non facessero  venir meno la loro indipendenza  sulle principali questioni amministrative riguardanti anche rapporti esterni alla Camera.

Si  è dovuto attendere l’iniziativa di due dipendenti che si sono rivolti alla Corte di Strasburgo per vedere dichiarata la contrarietà alle norme CEDU che stabilisce  che  ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente … da un tribunale indipendente ed imparziale,costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile.

La Corte di   Strasburgo si è   limitata  a ravvisare nella   simultanea   composizione  parlamentare  della “Commissione   giurisdizionale   per   il   personale” e nel “Collegio   di    appello” (vedi http://leg16.camera.it/954)    una   mancanza di  imparzialità,  una “semplice” violazione dell’art. 6 CEDU.

 

 TORNA

 

 

reato di stalking

 

Il profilo penale del reato di stalking - previsto dall’art. 612 bis) del codice penale -  è proteso alla  tutela di diritti costituzionali  allorquando sono  minacciati  i  valori  di tutela  e libertà individuali  garantiti dalla Carta:  “… chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita ...”

Le elaborazioni giurisprudenziali che sono intervenute hanno, come dire, ampliato l’ambito di applicazione che, nell’immaginario collettivo,  è stato associato quasi sempre alla violenza sulle donne e agli omicidi di donne;  non anche a tutti quei comportamenti capaci di infierire su una vittima con modalità anche subdole,  attuandole con lo scopo di provocare un danno.

Ci si aspetta che le regole giuridiche siano in grado di garantire,  in concreto,  un’adeguata e sufficiente tutela a tutti i bisogni sociali;  ma,  purtroppo,  la maggior parte delle volte non è così; anzi, spesso,  si ha la percezione  di vivere in una società in cui la parola “tutela” è solo una mera utopia.

É questa la sensazione che affiora in  tutte le vittime di stalking, le quali vedono costantemente leso il proprio diritto alla sicurezza personale; diritto tra l’altro riconosciuto anche dall’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani laddove è sancito. “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”.

Se lo stalking è ravvisabile in un insieme di comportamenti o, anche, in  quell’insieme di omissioni che trovano, o dovrebbero trovare,   sanzioni  certe da parte dello stato,  quale l’interpretazione del  reato, oltre la lettera della norma, quando vieta  che “ il perseguitato sia costretto  ad alterare le proprie abitudini di vita”?

Del contesto socio/economico  che viviamo  (che produce la necessità di lavorare pure  nella  certezza di contrarre gravi malattie o, peggio,  andare incontro a morti statistiche;  che produce disoccupazione e, poi,  estrema povertà delle famiglie;   che produce cibo non controllato; che facolta l’introduzione di veleni nei terreni e nei cibi; che toglie alla casa il privilegio di bene primario; che  genera una tale mancanza di prospettive da “consentire” il suicidio)   non è forse responsabile lo Stato?

Non è forse obbligo etico/sociale  dello Stato –attraverso i sui propri organismi -  rimuovere tutti gli  ostacoli  che vadano  a compromettere la dignità nonchè  i diritti al lavoro, alla istruzione, alla sanità, ad una vita serena,  allo sviluppo armonico e culturale  della collettività?

I valori risultano talmente alterati, offesi, vilipesi che diversi sacerdoti si sono pronunciati dichiarando  che chi ruba per necessità non può essere annoverato tra i peccatori.

La mancanza di controllo sul  territorio, la mancanza di controllo sull’accumulo delle ricchezze, la mancata vigilanza sulle vicende di corruzione privata o di gruppi, la pressione fiscale strettamente legata al malcostume diffuso di non pagare le tasse da parte dei ricchi; lo strozzare i poveri con malversazioni  generano  una diseguaglianza intollerabile, un abbassamento della soglia  del controllo politico,  economico/sociale ed etico/culturale ,   una depressione,  una alterazione della qualità della vita, una sensazione di pericolo per sé e i propri familiari, una alterazione significativa dei valori condivisi.

Si potrebbe delineare uno stalking dello stato? 

La questione è delicatissima e tutta soggetta a modificarsi nell’attività legislativa.

Ma lo stalking è  comunque violenza e si deve lavorare  a rimuoverlo secondo la lezione di Ghandi: “Se esiste un uomo non violento, perché non può esistere una famiglia non violenta, e perché non un villaggio? una città, un paese, un mondo non violento?”.

 

TORNA

 

 

apartheid e "tribunali speciali"

 

Oltre dieci anni fa proponevo al Consiglio dell’Ordine di Napoli una iniziativa che avevo  intitolato   “toghe bianche”, finalizzata a  fornire  ai laureandi in giurisprudenza esperienze concrete e dinamiche nel contesto e sul campo dove si svolge e si pratica la domanda  di  giustizia,  ovvero nelle aule di udienza.

Anche con la vestizione  di una toga bianca, segno virgineo di approccio, con la guida di un Avvocato  di “lungo corso”.

Lo scopo? Non disgiunto dall’indossare la toga, per la percezione della  sacralità dei luoghi  e della funzione sociale della Giustizia,  valutare la propria indole se protesa all’essere Giudice o Difensore  o, viceversa, indifferente;  talchè  ricercare una professionalità alternativa come  finalità e conseguenza degli studi.

Mi rendo conto, oggi, che la mia proposta era oltre i tempi, o meglio era contro gli interessi che, con costante e perversa strategia,  stanno piegando,   verso l’altrove,  l’Avvocatura.

Invero, i giovani approdati alla professione – con formazione dottrinaria  e tenacia - vanno a subire una palese discriminazione; si potrebbe definire: apartheid.

Si delineano,  in progressione, attività difensive e di assistenza, conferite con accentramento agli studi professionali (associati e non) adusi a rappresentare interessi non sociali ma a vantaggio di enti economici –di predominanza- che operano ad alti livelli finanziari; a questi ultimi, peraltro, i tempi lunghi della Giustizia non interessano affatto;  anzi,  vengono sapientemente utilizzati.

Già l’Avvocatura (quella Avvocatura che io definisco “operaia del diritto”) è manifestamente  mortificata e impoverita; dovendo rispondere alla utenza  del disfacimento della “macchina giustizia” e dei suoi costi proibitivi; utenza,  cittadini/clienti, che  sempre più si priveranno –saranno costretti a privarsi-  dei diritti fondamentali;  e non solo di quelli difensivi, ma umani.

I Consigli dell’Ordine – limitandosi a dichiarazioni estetiche -  nulla hanno saputo fare per fermare una deriva che si è presentata, da subito, tesa a “proteggere”, se non garantire,  le parti forti  del sistema sociale dell’economia, delle holding finanziarie e che è destinata a travolge l’ “avvocatura operaia” e, ancor più la giovane Avvocatura.

Si è, di fatto, lavorato a creare una apartheid: uno spettro che già alberga e vaga inquietante  nel “sistema giustizia”.

Attuata con una strategia che ha trovato giustificazioni tra i rivoli della necessità di competere, di liberalizzare, di essere europei in salsa italiana (ossia, finanche,  disattendendo,  nelle aule di giustizia,  ogni  normativa europea: ignoranza dei Giudici?) e “aborrendo”  la finalità altamente politico/sociale della funzione difensiva.

Il rapporto, storicamente triangolare, del processo è, dovrebbe essere, significato dalle parti dialetticamente presenti  davanti ad un  Giudice terzo e imparziale,  che decide in tempi rapidi.

Ma con  una “giustizia ricca” - esercitata con estraneità e senza dover rendere conto -  si rischierà di portarsi  davanti a “tribunali speciali”, fruibili da una casta dominante, con alterazioni e/o “pendenze” dei tempi e temi processuali.

Si è, di fatto, lavorato a creare una  apartheid: se ne  vedranno, nella loro pienezza,  le conseguenze   fatte  di segregazione civile,  umana e professionale.

Non patrocineranno innanzi a tali “tribunali speciali” sia l’ “avvocatura operaia”, sia   i giovani Avvocati (nonostante ogni capacità giuridica, anche di livello superiore); questi,  se non avranno trovato “posto” nel sistema, se non al riparo di importanti eredità professionali familiari, se non adattatisi alla “precarietà servile”  cui sono stati destinati.

Stiamo assistendo alla formazione  – subdola e coattiva - di una nuova classe di paria.

Degenerazione della democrazia? Squilli di  una “auspicata” dittatura?

 

 TORNA

 

 

protezione alle parti offese

 

Sono notoriamente previste misure di protezione per i testimoni e i “collaboratori di giustizia”   - estese, in casi particolari,  anche ai familiari degli stessi-  adottate nei processi a carico di organizzazioni criminali o per  crimini di guerra.

Le misure spaziano dall’ attuare un servizio di scorta e di controllo territoriale, fino alla conclusione del processo,   al fornire  una nuova identità,  con una protezione da parte degli organismi statali  per la durata della vita di quanti vengono ad usufruire  di tali misure.

Un dispiegamento ed impiego di mezzi e  risorse dello stato al fine di garantire apporti processuali per accertare responsabilità e comminare pene.

Di converso nessuna  protezione è prevista e/o attivata in favore di quanti  si trovano nella condizione di “parti lese”; specie per  sofferenza in situazioni conseguenti a  corruzione, concussione,  abuso d’ufficio ovvero, ed anche, in ambito civile,   nelle manifeste evenienze di  dominanza economica, abuso  del processo, frode processuale; provocate e praticate sia da  singoli , sia, soprattutto,  da gruppi economici. 

Lo stato ha previsto provvidenze  per le vittime di usura, racket, criminalità organizzata ma nulla prevede  per le vittime della criminalità più subdola e devastante:  quella criminalità economica deviante che  si nutre di “traffico di influenze” (considerato fisiologico nell’attività lobbistica) e si  serve di coperture e connivenze  proprio da parte dei soggetti che dovrebbero vigilare.

Nulla prevede, d’altronde,  per le vittime di “mobbing giudiziario”.

A mio avviso  si manifesta una   disparità di interesse –dello stato- nei confronti delle “parti lese”.

Invero le “parti lese” – mai dimenticare: cittadini -  subiscono una vera e propria deriva della propria esistenza; in molti casi precipitando   in un vortice  senza ritorno fatto di degrado e povertà;  fino ad estremi –da ritenersi  impossibili-  quali perdita della abitazione, dell’attività,  del minimo di sopravvivenza e finanche del diritto, nel tempo secolare,  a vedere riconosciuta la propria posizione di “parte offesa”.

Tra “distrazioni” istituzionali diventano rifiuti umani;  completamente ignorati e gettati, ancora sanguinanti e  in vita, nella discarica della dimenticanza e dell’oblio; oggetti, finanche,  di derisione e  disprezzo.  

Queste vittime della indifferenza (dal  pensionato derubato della pensione al “perseguitato” da cartelle esattoriali impazzite)  sono orfane  della solidarietà e dei valori etici di uno stato che si dichiara  moderno.

Per  tali cittadini   svantaggiati, offesi e vilipesi, “parti lese”  che non fanno platea di ascolto, propongo che lo stato provveda ed attui anche per essi un “programma di protezione”. 

Utopia democratica? “Eccesso” di giustizia? Interpretazione “astratta” della Costituzione?

 

TORNA

 

 

imitazione

 

Il  fenomeno dell’ imitazione è uno strumento istintivo  in dotazione sia al  mondo  animale  che a quello umano che serve per apprendere e per elaborare i dati  attraverso  le conoscenze.

La psicanalisi considera l’imitazione come un fenomeno di identificazione ( in genere con modelli genitoriali); distinguendolo dal fenomeno patologico  della imitazione - originata dalla suggestione-  che Karl Jaspers chiama una imitazione isterica e  involontaria,  per contagio delle masse.

In questa  evidenza di contagio,   l’individuo diventa  preda di fenomeni di comportamenti   collettivi;  perdendo la propria padronanza e la propria individualità,  in uno con la capacità di affrontare i  problemi che gli si presentano  nella sfera sociale, individuale e psicologica.

L’antropologia,  d’altronde,  studia lo stesso  fenomeno dell’imitazione;  classificando l’imitazione come istanza necessaria dell’uomo,  portato ad emulare o imitare un soggetto che gli appare felice per  cercare di raggiungerne  la stessa  felicità.

I guasti di tali tendenze sono evidenti in ogni ambito culturale e sociale e non c’è  chi non colga la differenza tra imitazione servile e mimetica ed emulazione; tra desiderio di migliorare nella unicità di modelli  e una  becera esaltazione individualistica senza speranza e valori .

Si manifestano  fenomeni imitativi e servili  che, anestetizzando  le coscienze,  esasperano  guasti sociali;  adesioni acritiche;   eventi  di invidia, senza speranze;  di  imitazione senza strumenti, di ripiegamento senza dignità, di forza fisica senza vigore.

Questo scenario  è presente spesso nella comunità adolescenziale ( baby gang) dominata da  annullamento totale della volontà  individuale,  per appiattimento alla dinamica di gruppo.

Il fenomeno del contagio imitativo  si presenta preoccupante  allorquando  l’individuo perde la padronanza di sé a seguito di circostanze sociali che non gli consentono né  speranze,  né dignità,  né soluzione.

Tale è il  fenomeno dei suicidi, fenomeno di emulazione noto come effetto Werther (dai “dolori”  di W. Goethe) condizioni sociali e personali laddove in esse  si identifichi  un nemico.

Imitando  i conflitti,  con  la violenza e/o  l’eliminazione fisica, nei confronti delle donne, nei confronti dei datori, nei confronti dei lavoratori dei servizi, nei confronti del diverso, comunque nei confronti dell’avversario; a seguito di    disagi sociali che esplodono per  perdita di lavoro o di identità familiare e sociale;    ovvero  in seguito  a fenomeni ritenuti intollerabili e frustranti.

Il suicidio per cause economiche è la proiezione  di una lunga  frustrazione patita che parla della ottusità e cecità e ingordigia delle istituzioni, della assenza di ascolto, della lentezza esasperante e malata della burocrazia;  con la  perdita, inesorabile, causa il senso di impotenza,   dei valori individuali,  della  perdita del prestigio personale  rispetto a modelli percepiti  vincenti e, non ultimo, viceversa   della ineluttabilità di un sistema che premia furbi e disonesti, tangentisti e lobbisti ;  senza chiedere conto, senza neppure presentare un  conto.

Questa percezione è determinata dalla mancanza di un modello evocativo di  atteggiamenti e comportamenti  comuni e condivisi;  è determinata dall’isolamento che frena e annulla rapporti sociali, amicali, familiari e sentimentali, minaccia la struttura sociale e il nucleo stesso su cui si fonda  la psicologia sociale.

Serve  invertire la tendenza, sbeffeggiare i modelli, condannare i servili servi di sé stessi?

Serve modificare il punto di vista e osteggiare - senza odio ma con fermezza -  i servilismi e i servi;  valorizzando solo l’umanità che ci stringe la mano,  che ci guarda negli  occhi;  rifugiandoci, se necessario,   in un canto fuori dal coro; nel silenzio costruttivo di un lungo, lunghissimo,  verso di dissenso.

 

 TORNA

 

 

astensione

 

Non condivido l’evento “sciopero”; ovvero, quindi, la più elegante “astensione”; oggi, quando la tecnologia consente  la simultaneità  delle comunicazioni e delle decisioni  e tutto è affidato, nell’effetto emotivo (poi, riflessivo), ai media.

Lo sciopero si finalizza a provocare disagio per coartare attenzione. Nel presupposto di adesione e consenso. Ma, dal disagio, non procede che altro disagio. In una contrapposizione crescente. Occorrendo riflettere che gli animatori potrebbero essere altrove ovvero in mascheramenti di interessi economici  volti a indirizzare le rivendicazioni verso destinazioni di sfruttamento; anche istituzionale.

La protesta, la lotta, non può essere affrontata  con obsoleti  mezzi e metodi fatti di  lamentele e di sfilate, con campanacci e striscioni variopinti.

Una trappola.

In cui precipita l’astensione proclamata dall’Avvocatura; che solleva quesiti nelle strade innescando una serie di disagi prossimi venturi nelle sedi sue proprie; conseguentemente,  nelle vite private e sociali dei cittadini e degli avvocati medesimi.

Una giornata di astensione: quindi,  differimento delle udienze; quindi,  trascinamento dei processi; quindi,  crisi sociale per la continuità dei conflitti e ritardi macroscopici  della  riscossione di crediti; quindi, deprivazione di risorse, economiche e, soprattutto, umane.

Avrei aderito ad una manifestazione/simbolo (tutti abbiamo bisogno di simboli!) che mi sono immaginata  in un giorno non di calendario di udienze,  in un grande spazio raccolto (uno stadio), dove l’Avvocatura – in toga -  ascoltasse  brani o citazioni  dei nostri Giureconsulti,   letti  da ciascuno dei presidenti degli Ordini Territoriali;  alla fine abbandonando il luogo senza applausi, senza slogans di protesta, dopo un lungo devastante silenzio.

Una manifestazione/simbolo che avrebbe sollecitato i cittadini a risvegliare in sé il desiderio di civiltà etica, di cui chiedono esempi di sostegno: anche questo è un esercizio di difesa.

Ma, sono in voga le “mode di libertà” e la fermentazione della crisi della Repubblica.

 

TORNA

 

 

etica del processo civile: tra dovere di verità e diritto alla trasparenza

  

Di questi tempi  legalità e trasparenza tracciano i motivi di  una diaspora/arma tra le mani di contendenti politici e richiama, prepotentemente, la lotta cruenta e sanguinaria, portata all’estreme conseguenze   tra Creonte  e Antigone;  tra la legalità e la coscienza etica in una  visione sociale  tutta da riscrivere.

In realtà la questione non è di poco conto e, volendo rimanere nella metafora, la verità e l’interpretazione della verità sono prepotentemente affidate, nel processo civile, a chi è chiamato a giudicare, con terzietà (quindi con imparzialità etica).

I Giudici devono, pertanto,  impegnarsi nella deontologia giudiziaria basata sul valore del dubbio e sulla rigorosa  ricerca cognitiva;  chiamati, mai come in questo momento,  a usare la prudenza come valore processuale poiché nel  processo si maneggiano contenziosi per interessi  prevalentemente  economici;  laddove, in alcune circostanze,  può entrare  in gioco  la pre-potenza economica di una delle   parti, arrogante nell’esercizio dell’azione.

Il quesito sulla necessità della verità nell’ambito del processo civile si era posto ed evidenziato all’alba della riforma del codice di procedura civile, risalente al 1865,  così che, nel progetto preliminare di riforma, campeggiava l’art. 26 che prevedeva:” Le parti, i procuratori e i difensori hanno l’obbligo di esporre al giudice i fatti secondo verità e di non proporre domande, difese, eccezioni o prove che non siano di buona fede”; con previsione di una sanzione  pecuniaria, di cospicuo valore, nel  caso di violazione del suddetto precetto; accanto ad una responsabilità processuale, di natura risarcitoria, a carico della parte soccombente.

Gli  obblighi delle parti e le sanzioni pecuniarie, previste in caso di violazione,  vennero sottoposte al parere di illustri giuristi ma, tale prospettiva, venne  condannata  -e,  poi,  abbandonata - a favore di una blanda - e diremmo bizantina  - versione; quale  si può leggere all’attualità nell’art. 88, del codice di procedura civile,  che si richiama ad un generico dovere di lealtà e probità; senza affondare in questioni morali, deontologiche o rapportato all’odierna esigenza etica, nella regola  di  trasparenza.

Guido Calogero, in un celebre saggio del 1939 affrontava la questione  arrivando  alla conclusione che l’obbligo di verità potesse trasformarsi,  per i tempi,  “in uno strumento inquisitorio o, comunque, in un mezzo indiretto di pressione morale compromettendo  il diritto di azione e il diritto  difensivo.”.

Una  tradizione (peraltro imputabile all’avvocatura) si è, nel tempo, radicalizzata sul concetto del processo: come un luogo dove sono ammesse  astuzie tattiche finalizzate alla ricerca della vittoria,  salvando la faccia - a volte e non sempre -  con un “bon ton” che non va  al di là di un esibito “adeguamento” alle regole processuali e, comunque, ad un codice deontologico  opacizzato.

Calamandrei assimilava il  processo ad una attività ludica – un “gioco” – con  “osservanza delle regole del gioco”  cioè fedeltà a quei canoni del diritto per cui, se qualcuno dei “campioni in lotta “  viola una regola, il Giudice è tenuto a valutarne le conseguenze e sanzionarle.

Insomma le regole del “gioco” sono la libertà dell’azione,  ma senza la libertà di barare.

Ma le regole vengono alterate o modificate  dalla forza del  potere di convinzione  agitato dal richiedente versus il contendente; influenze deputate a  suscitare risonanze nella coscienza del giudicante.

Nell’osservazione obiettiva delle vicende processuali, non ci si può astenere dall’amara considerazione che molti comportamenti delle parti e del terzo giudicante impegnino il processo in un pantano  dove il “gioco”   viene alterato, nelle sue regole, impudentemente .

Così non sempre il risultato è un risultato di giustizia  perchè, diventando una rappresentazione ludica,  l’esito finale non dipenderà  mai dalla effettiva  verità  della pretesa.

Molti autori, odiernamente, ritengono che il contenuto precettivo dell’articolo 88, del codice processuale,   vada agganciato a contenuti di carattere morale; per tracciare un solido confine tra “ la maestria  dello schermidore accorto e diligente e  i goffi tranelli del truffatore”

In realtà, la prospettiva esaminata non può risolversi in un insieme di regole che, privilegiando la formalità della rappresentazione,  neghino  un momento significativo e peculiare delle esperienze umane, quindi, dell’esperienza giuridica; esperienza di relazione essenzialmente paritaria; di carattere ontologico e insieme deontologico

Il processo, come luogo  del confronto tra  pretese soggettive,  non può che veicolarsi attraverso una comunicazione su un piano di pari dignità, verità e trasparenza.

Con il riconoscere l’altro come partner della comunicazione, come colui che – concretamente –deve essere messo in grado di argomentare le proprie rivendicazioni, senza che, con artifici e raggiri,  gli si impedisca di esercitare questo suo diritto; annientandolo.

Le parti non possono organizzare i loro rapporti   basandoli sulla  forza (pubblica e/o privata,  economica) ma agire nell’orizzonte comune della decisione che è relazione  processuale;   secondo principi di lealtà e di prudentia.

Quest’ultima  non  strettamente normativa e che, non a caso, deve essere   consegnata al Giudice, onerandolo di principi di onestà intellettuale e  responsabilità etico/sociale e morale.

Per questo ritenendo che il Giudice abbia il dovere, l’obbligo,  di rispettare e far rispettare i principi fondanti; ogni qualvolta le astuzie e gli inganni palesi di una delle parti processuali, danneggino gravemente le prerogative e le difese dell’altra parte.

Nel 1956 Calamandrei, esortava: “Voi dovete aiutarci, signori Giudici a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.

Siamo nel 2013.  L’esortazione, alta, di Calamandrei pare si sia dispersa.

 

TORNA

 

 

parole

 

Il suono e, poi,  vocali , consonanti che su uniscono ; sillabe  e, poi,  parole. Il suono può essere  di dolcezze, di richieste, di dialettica di idee, ma anche di violenza. Poi, la parola scritta contiene semi e segni di ogni intenzione sottostante che, fuori dal fonema,  deve essere interpretato nella sua essenza comunicativa, nella sua intenzione.

Si parla anche  tanto delle moderne  comunicazioni  dove la parola deve essere sintesi evocativa a volte più efficace di un lungo discorso politico o sociale ma che può diventare  un luogo di agghiacciante violenza;  i twitters, luogo di scambio di sintesi, di efficacia comunicativa può diventare una trappola di volgarità e gratuità a buon mercato.

La cronaca intanto racconta di storture dove la comunicazione viene maneggiata senza regole, una inconsapevolezza al male, al fare del male puntando un bersaglio indifeso facendolo oggetto di vessazioni  di commenti di video rubati mirando  selvaggiamente alla sensibilità alla fragilità  che ti isola, ti emargina e,  sappiamo tristemente  dalla cronaca arriva a ucciderti.

La malvagità inconsapevole e la brutalità di giudizi  è anche figlia di scompostezze  comunicative che rinunciano alla parola significativa e colta per appropriarsi della grossolanità  e direi che è tutta  proporzionata  al livello stesso di cultura  in uno al livello  di percezione  e di sensibilità, una bussola falsata e inceppata sul proprio io comunicativo con   grammatiche immorali

Si  comincia a parlarne e dopo uno studio  su siti che comunicano odio già dai titoli si parla di allarme sociale e si cerca di coinvolgere i social network al controllo dei messaggi alla loro immediata identificazione e alla conseguente immediata  rimozione.

Sul fronte del diritto passi significativi, di una percezione più ampia  e attuale del dolo generico da stalking,  si leggono nella sentenza della Suprema Corte n. 20993/2013  dove si enuncia il principio che “non occorre “una rappresentazione anticipata del risultato finale”.

 

 TORNA

 

 

lettera al signor p.f.  (potere forte)

 

 

Signor P.F., per Lei e in  Suo nome  vengono giustificati  crimini, stupri di diritti e ogni malefatta;  come, per martirii e sacrifici, il nome di Dio.

Per Lei e in Suo nome si organizzano scorribande e commerci di serpenti; Lei ne  esce  sempre indenne da responsabilità.

Signor P.F., la sua esistenza è dovuta ad un esercito di vermi, pure già in putrefazione: un esercito che annusa, come cani da tartufo,  tutti gli odori degli intrighi per denaro,  per prestigio criminale, per inerzia morale.

Per il Suo esercito i diritti sono quelli che si ignorano.

Signor P.F.,  Lei trama  di influenzare gruppi umani nei comportamenti e finanche nei pensieri; organizzando la libertà di dissenso perché nessuna contrarietà o indagine possa minimamente turbarla.

Lei, Signor P.F., ha  ammalato mortalmente la società e la democrazia con sangue infetto del denaro e del ricatto; ricevendo il plauso dall’omertà degli inetti che decidono di beneficiare di piccoli profitti.

Lei, Signor P.F.,  ha attinto e continua ad attingere  la sua forza dalla difficoltà di sopravvivere che Lei stesso determina: così, si è  pronti a derogare da efficienze, controlli, pulizia, trasparenze  ed affidarLe, persino,  il regolamento delle minime sopraffazioni subite.

Questa visione opaca della società La fa vivere di rendite all’interno della democrazia,  protetto dai consigli di amministrazione, dai finanzieri, dalla fila di  parlamentari  che sanno  deviare e ostacolare riforme che consentirebbero di togliere ingessature e praticare la strutturale riabilitazione dell’etica dello  stato.

Lei, Signor Potere Forte,  sa che noi la combatteremo con un’idea, un progetto, una prospettiva.

Anche, con la consapevolezza  di non poter avere la certezza di una possibilità di riuscita; ma, se non tentassimo, ci condanneremmo , per sempre,  ad essere un prodotto cannibalizzato di consumo.

 

TORNA

 

 

patafisica del diritto

 

la patafisica - diceva Jarry - è la scienza delle soluzioni immaginarie.”

Si può ben assumere, per comune esperienza, che  in questi anni la “patafisica” sia  sostituita, come esercitazione dialettica –o depistante -  ad  un serrato e autentico metodo di studio delle soluzioni.

Nella politica, nelle istituzioni, nei gruppi  di potere, nella vita sociale,  la realtà oggettiva è stata supplita  nelle sue molteplici espressioni dalla spettacolarità , da una visione “patafisica” delle problematiche;  con una   realtà narrata in funzione del risultato;  con la conseguenza di sostituire una possibilità  di risultato   in un buon  risultato; anche con un accentuazione di ir-responsabilità , nelle  aule di un  tribunale.

Il diritto si è modificato , così, in  una sorta di laboratorio concettuale, un luogo dove la realtà viene sostituita da un gioco di prospettive; con un avvelenamento metodico dove tutto diventa una opzione possibile,  nell’immaginario, nel  fantastico, in un meta sistema di verità.

Una costruzione,  certamente non esaustiva,  di un mondo dominato, più che mai,  da interessi talmente contrapposti da apparire un immaginario scaturito  dalla penna di un visionario collegato alla schiuma del possibile; come affermava un autorevole esponente  della teoria.

La patafisica è una metodologia di interpretazione della realtà che si  può usare, quindi,  in contesti innumerevoli, come la fantasia, senza confini tra il lecito o illecito;  non a caso è definita  “una crisi logica senza via di uscita”.

Qui si deve annotare che  quando interpreta il suo esercizio nei Tribunali -nei luoghi, cioè,  deputati a un corretto riscontro del modello procedimentale-   va direttamente ad incunearsi – dilatandolo - nel vizio del confronto; determinando  geometrie variabili senza stabilità fomentando di conseguenza un “mercato” del diritto,   liquido;  dove la legge è solo quella del più forte,  con un vistoso   indebolimento del potere decisorio secondo verità e giustizia.

Ladri di realtà e ladri di fiducia diventano un formicaio, uno sciame, una creatura collettiva mostruosa pretestuosamente decisionale: un incubo -con allucinazioni ad effetto domino-  che sovverte e travolge, ogni monade di verità, ogni composta verità.

Capita, allora,  che l’attività di un avvocato di libero Foro sia di competenza obbligatoria di un Giudice del Lavoro  talchè  la libertà professionale - sancita da legge  speciale -  sia una distrazione, una svista, del legislatore.

Capita  che un decreto ingiuntivo “debba”  essere revocato senza contraddittorio venendo disattese le prove documentali fornite dal contraddittore;  anche con  condanna esemplare alle spese (violando  i principi del giusto processo in virtù di una pretesa competenza a nulla importando  sia della condanna di pagamento formulata e del riscontro documentale passato al vaglio del giudice).

Capita  che prove fisiche di iscrizione nei conti di mastro  del debitore  diventino  notule avverse senza valore né sostanziale né processuale.

Capita   che organismi di controllo non abbiano manifestato censure, per anni.

Capita che dal codice appiano cassati tutti gli eventuali reati attribuibili , dalla calunnia all’appropriazione indebita, dalla falsità ideologica per indurre il giudice all’errore allo stalking … al tentativo di estorsione e   quant’altro.

Se tutto questo è  nell’ordine naturale delle cose,  siamo – sono- in un ciclone globulare.

Ma potrebbe essere l’incombere contestuale del  grottesco, del satirico, del  comico di una  fantasia di verità e di giustizia: patafisica del diritto, insomma.

 

 TORNA

 

 

il diritto dei giusti

 

La elevazione al soglio pontificio di un cardinale dell’america latina ha riproposto riflessioni sulla teologia della liberazione che rappresentò la presa di posizione della  gerarchia ecclesiastica sudamericana (poi estesa ad altri paesi da parte di preti-operai)   in favore delle popolazioni più diseredate e delle loro lotte nell’opporsi alle dittature militari e ai regimi repressivi; in una visione meno ostile alla legittimità delle lotte per i diritti civili.

Riflessioni che portano a spaziare, dall’ambito segnatamente teologico, sui diritti umani e sul progressivo trasportarsi di essi, come sentimento irrinunciabile di dignità, alle riflessioni filosofiche sulla natura dell’uomo attraverso le più diverse condizioni storico/politiche, stratificando e anche mutando, contraddittoriamente, condizioni di diritto vivente che dai principi medesimi venivano a affermarsi e consolidarsi.

In una relazione strettissima tra rivoluzione e diritto.

Invero se si fossero poste a caposaldo immutabile le previsioni del “cilindro di Ciro” (peraltro, in qualche modo,  assorbite dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, del 10 dicembre 1948) non si sarebbe assistito ad un continuo alternante disvalore e anche   negazione dei principi cardini. Calati in una interpretazione strumentale di diritto positivo  utile a coltivare  situazioni di preminenza e di predominanza.

Un esempio  esplicativo di tale disvalore:   “legge dei sospetti” del 17 settembre 1793 che prospettò la “salvezza” dei principi rivoluzionari di uguaglianza, libertà e fratellanza, con una “paranoia rivoluzionaria” che segnò la riduzione, fino all’annullamento,  del rispetto delle libertà individuali.  

In effetti,  con la “legge dei sospetti” , introducendo un diritto vivente non nella applicazione dei diritti rivoluzionari  sanciti ed acquisiti ma nell’interesse di un gruppo (i montagnardi)  venivano considerati "indiziati"  e sospettati di tradimento e arrestati tutti coloro che “o per la loro condotta, o per i loro rapporti, o per i propositi o gli scritti, si siano mostrati sostenitori della tirannide o del federalismo, e nemici della libertà”.

La “legge dei sospetti”  si riversò  sulla formazione del corpo sociale  senza alcuna preoccupazione per le posizioni dei singoli individui; comitati di sorveglianza sottrassero, poi,  ogni  potere alle autorità legali e al potere  giudiziario.

Se la rivolta è la rappresentazione attiva di un disagio, di una consapevolezza di diseguaglianza, la rivoluzione è il momento di progetto di una comunità organizzata secondo regole che non possono prescindere dalla valorizzazione dei diritti umani alla libertà individuale, alla dignità della persona (in tutte le sue possibili espressioni),  alla ricerca di un criterio di giustizia attuato mediante leggi che prevedano la regolamentazione politica dei principi e la capacità di valutazione delle trasgressioni secondo parità ed equità.

Si pone allora un duplice problema: Quello della coerenza legislativa rispetto ai crismi “rivoluzionari” e quella della autonomia morale ed etico sociale dei giudici preposti ad amministrare la giustizia.

Con un principio di colpevolezza incidente  o sul dolo sociale dei legislatori (che dovrebbe essere censurato  con un’azione rivoluzionaria di ripristino dei valori ideologici e fondanti) o sull’adesione silente  dei giudici ogni qualvolta ritengano di fare esercizio di applicazione pedissequa della legge, senza utilizzare la  facoltà di dissociarsene.

Insomma il rapporto tra rivoluzione e diritto, pure distinguendosene,  implicita il rapporto tra rivolta e interesse. La rivoluzione,  elaborata su principi da una aristocrazia di pensiero che se ne distacca dagli effetti; la rivolta,  da una elite protesa a motivarsi e referenziarsi sui principi e mossa al raggiungimento di preminenze soggettive.

La nostra Costituzione procede da un atto rivoluzionario, di lotta e di liberazione che voleva meditare,  assorbire e rappresentare alle generazioni presenti e future pensieri, lontani e antichi,  di dignità disegnati su creta, tramandati nei secoli per tenere alta la voce della coscienza dei giusti

Ma le leggi e l’uso delle leggi e l’applicazione delle leggi ormai ne disattendono  i principi. E si agita il vento di rivolta, senza una rivoluzione che  sappia di nuovo, e ancora,  armonizzare il diritto dei giusti.

  

TORNA 

 

 

estenuanti attese

 

Estenuanti attese che, con scaltrezza mistificatoria,  fanno passare per momentanee, sentite  riflessione.

Sono attese sterili, come sterili le parole che l’accompagnano, come sterili i progetti sottostanti.

Senza visioni future;  impantanate in giochi di necessità e di sopravvivenza cautelativa: la misura della vita non è più quella umana con i suoi diritti,  ma quella del profitto a lungo termine, una sorta di fine pena mai.

Con queste castronerie  l’Italia sta andando a picco e con l’Italia i singoli cittadini fuori delle  statistiche che parlano di quattro polli a testa (buona digestione a tutti!)o o di una casa a testa ( non importa che siano di proprietà delle banche o accentrate in incalcolabili ricchezze di pochi:   statistiche reali delle politiche predatorie che le tolgono in forza di legge ai senza patria di diritti e dignità).

Il dado falso deve essere tratto.

Oggi è tratto sul  finanziamento pubblico ai partiti, prelievo forzato democrazia assicurata, e rinviato al 2017, in attesa di “altre proposte”

Un dado falso tratto  per la  riforma  del mercato del lavoro: una legge messa a segno nel giugno 2012 dal governo tecnico;  con una sospetta larga, larghissima  maggioranza che ha dovuto alimentare tale scempio lacrimoso  sulla necessità drammatica di dover offrire garanzie   per ripagare l’Europa della “fiducia”nel sistema Italia.

Una tappa necessaria - in agenda da anni-; una trappola  alle tutele del lavoro attraversate da anni di lotta ma  sacrificate a  un  compromesso, utile, nelle “ipotesi”, a  sprigionare energie più libere e tanta, tanta competitività da essere  idonee a favorire la ripresa;  ma, sempre, con calma.

La posta costituzionale, continuamente in gioco,  ha consentito solo un ripensamento circa la reintroduzione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo o discriminatorio.

La valutazione caso su caso ( non semplice in una lotta tra imprenditoria capace di far valere ragioni di mercato e il lavoratore sfiduciato) tocca  alla Magistratura che deve fare i conti con spazi discrezionali fragili, se non ambigui,  tra le ragioni delle imprese ed equilibri  imposti dall’alto che hanno annullato i miglioramenti delle condizioni dei lavoratori, ottenute attraverso anni di lotte sindacali e sociali.

La crisi economica e sociale - che avrebbe potuto sollecitare revisioni critiche e portare ad individuare e isolare diverse precise responsabilità e soluzioni-   isola  i cittadini in decisioni imposte in nome di questa;   sventolata per invocare scenari apocalittici  ma, contestualmente, per  favorire  un agire dove i principi fondamentali sono messi in discussione se non minacciati ( oggi si parla di possibili riequilibri a  partire dal  2076,  con indice di ottimismo da valutare tra un decennio).

Illustri costituzionalisti, studiosi, liberi pensatori e una buona parte dei media  lanciano ogni giorno allarmi,  fondatissimi,  sul potere della  finanza mondiale che opera sotto “l’ombrello ideologico della libertà di mercato”.

Potere   che,  non avendo un governo ma una governance,   agisca in totale libertà condizionando pesantemente  le politiche e le scelte dei  governi istituzionali, a totale detrimento dei cittadini che sono relegati a ruoli marginali di nuovi schiavi.

La regola imperativa che  tutti devono ossequiare diventa   una nuova ideologia;  un refrain di un pensiero unico dove,  di fronte alle  difficoltà per tutti, non esistono diritti da esigere  ma solo privilegi da alimentare a danno di altri; una disparità generazionale che  diventa  incolmabile: attese senza soluzioni.

Poi vediamo.

 

TORNA

 

 

donne e dintorni

 

Quando le donne erano “attive”, per il diritto al voto, e quando erano in prima linea, per acquisire altri diritti fondamentali,  si esponeva, con vigore,  la richiesta di uscire dalle maglie di una società retriva e falsamente bacchettona dove il potere era maschile;  di  padri padroni e da questi  gestito, saldamente, da secoli.

Qualcosa non torna  se la donna ha acquisito nell’ultimo secolo diritti ma se tali diritti sono rimasti sulla carta senza essere seminati nella società, sparpagliati nella famiglia, interiorizzati nel sociale e assimilati nella cultura.

Si è forse compiaciuta di una libertà formale e formalizzata?

Debbo annotare che ha, ancora una volta,  delegato gli uomini alla facoltà di farsi scegliere per poter rappresentare il femminile: le “quote rosa” (terminologia  che sembra tanto di pubblicità  da odore di urina negli ascensori - pubblicità regresso -)   che, in sé, esprimono  una  incongruità  giacchè  alle  parti svantaggiate socialmente si concede una partecipazione formale e subordinata. 

Debbo annotare che, finanche, ha assimilato e fatto proprio il linguaggio del maschile; mettendo sotto scorta la propria sensibilità fatta di intuito, lievità psicologiche, immedesimazioni.

Debbo annotare che ha privilegiato personali scelte ancillari;  dimenticando  le ingiustizie che vedono la donna, la femminilità, negata, perseguitata e vittima.

Su quali versanti portare la riflessione e la “competizione emulativa”: quello delle false vampire, (quasi false invalidi)  capaci di difendersi, di provocare, di scegliere, di rifiutare  ovvero quello delle  donne capaci di intercettare e vivere la propria sensibilità e cultura del femminile?

Un conto è fare della seduzione un gioco, un modo di essere, una disposizione innocente dell’animo;  altro è proporla quale strumento per disorientare, produrre debolezze; alterare le dosi di  coraggio, gli equilibri di forza.

Le donne sembra vogliano dimenticare che hanno in tutela  la pace, il lavoro dignitoso, la protezione delle famiglie, la equità sociale, la dignità del corpo, la cura del territorio, la libertà di espressione, la gestione della giustizia: per un progresso di civiltà a favore del  tessuto sociale.

E le donne non intendono dare rappresentanza alle donne.

Così che la loro partecipazione  è carente, insufficiente, finanche deleteria; perché quelle che sono, per così dire,  arrivate (magistrate, politiche, amministratrici, giornaliste e via dicendo), il più delle volte,  appaiono  perseguire e mantenere   modelli sclerotizzati sul maschile.

Diventano settarie e competitive;  dimenticano l’intelligenza corposa e magnetica del femminile   uniformandosi  a tipologie inadeguate, con atteggiamenti interpersonali  quasi maschi, in agguato  col solito metodo sedativo.

Occorre che le donne  compongano  le loro vite, alfine, in  momenti di “complicità sociale”,  di cui ha detto Paulette Ievoli, per dare origine a una autentica “rivoluzione”  finalizzata alla conquista del  potere; per elaborare e determinare un diritto e norme al femminile.

 

TORNA

 

 

alla cena di Babette

 

Una lenta processione di uomini e donne arriva al tavolo apparecchiato  con fine porcellana  e tovaglie pregiate.

Sono circospetti e con un patto di silenzio: hanno giurato di fingere indifferenza ai piaceri della tavola.

La distanza è siderale non solo tra la cucina e la sala da pranzo ma tra il lavoro silenzioso di Babette e degli assistenti e il piacere dei commensali che sono lì per una celebrazione e devotamente mangeranno.

A capotavola  le due sorelle.

Dietro la facciata di sacrificio delle loro ambizioni e talenti personali, si sono votate al bene della comunità attraverso un controllo cinico,  attraverso una direzione crudele della necessità e del dovere: un collante potentissimo, una operosità che ha bisogno di un esercito di  parolai  per funzionare; una predicazione furiosa per governare gli animi.

Al centro della tavola, il generale.

Altero ed esperto, possiede bei modi e didatticamente gusta il cibo.

Tutt’intorno i celebranti del “ricordo”necessario: il decano, che come un’ombra sovrintende,  anche da morto.

Babette e i suoi assistenti sono indaffarati; pronti a servire la cena.

Si incomincia.

Consomè di “sudore dei lavoratori” 

Antipasto di “costituzione”

Sformato “disoccupato”

Arrosto di “capponi” alla finanza

Insalata di “mutui” all’erba cipollina

Formaggi misti “derivati”

Savarin all’ “ambiente”

Frutta mista affettata di pesche “imu”,  ananas “irpef”, fichi selvaggi “iva” 

Caffè con  pinolate di “cultura” , frollini di “ricerca”, amaretti di “sanità”

Vini  rosso “corruzione”

Champagne “impudenza”

Tutti i  commensali imparano presto che l’appetito vien mangiando, la sete passa  bevendo e le parole tacciono godendo. Il tavolo è il luogo dei silenzi mascherati.

Sostituiscono all’acqua,  il vino; alle parole, il piacere dell’omertà sazia.

Il generale, alla fine del pasto, ebbro di gioia, sazio di buoni sentimenti e perso nella sua grandezza (non sa neppure  tanta goduria chi l’abbia preparata)  dichiara solennemente: “rettitudine e felicità si sono baciate”

Ah, la cena?  Pagata da Babette!

 

Personaggi:

Babette e la sua cucina : esodati, disoccupati, pensionati, emarginati

le due sorelle: i parlamenti

il generale: il potere

i commensali: varia umanità  (impiegati, finanzieri, professionisti,  funzionari, etc)      

il decano: l’ingordigia

 

TORNA

 

 

l'ultima virtù

 

Bene - dissi -, nello Stato abbiamo riconosciuto tre delle virtù, così almeno sembra: quale può essere ora l'ultima, che lo rende compiutamente virtuoso?

La giustizia evidentemente.” (Platone)

 

Nella Grecia antica   diritto e giustizia erano un amalgama perfetto che si cercava attraverso il dialogo.

Il diritto, per essere tale, doveva essere necessariamente giusto.

Con l’onestà di immaginare le emergenze sociali elaborando  diritti  nell’equilibri tra i fatti e la loro interpretazione;  al riparo del verbo del già detto, del non esplorato, del banalizzato  che diventa, rischia di diventare,  “stupro accademico”

La odierna separazione tra giustizia e diritto ha generato  una creatura mostruosa che non produce  il giusto obiettivato in un principio o in una norma ma, al contrario, lo trasmuta in verità processuale emersa dalle carte, occultata nelle intenzioni intrisa dei dogmi,  sbandierata  come una virtù da ossequiare,  avulsa dalla giustizia.

Diritto e giustizia si sono separati, forse  consensualmente,  generando, come nelle separazioni,  solo regole offuscate:  come una storia d’amore, impantanata nei  torti  subiti  e avulsa dalle domanda e risposte che erano state , fino a ieri, alimentate dalla comprensione.

La legge è diventata così forte, così pervasiva,  così dogmatica -allo stesso tempo-   che  ha neutralizzato  il linguaggio nelle sue possibilità del dire, dell’immaginare, del prevedere, nel concertare soluzioni;   offuscando, inesorabilmente,   il volto del giusto e la visione in divenire.

 

 TORNA

 

 

prove di "fine del mondo"

 

Si parla, da più parti, di una  prossima “fine del mondo”.

Secondo le più accreditate profezie causa qualche evento che, inevitabile e inesorabile,  proverrà  dallo spazio: una distruzione per cataclismi provocati da meteoriti che bersagliarebbero la  terra.

Forse, anche, visitatori, alieni che verrebbero a distruggerla o assoggettarla.

Abbiamo contemporanee conoscenze scientifiche, studi antropologici e paleontologici, che ci spiegano come antiche civiltà siano scomparse e, con certezza, per mano di uomini-

Uomini che abbatterono  le foreste,  portando all’estinzione piante e animali;  portando alla desertificazione; facendo  precipitare la loro società nella implosione.

Il fenomeno della completa scomparsa di antiche civiltà ha trovato, così,  d’accordo quasi tutti gli studiosi che sono giunti ad attribuirne la responsabilità all’uomo a quell’uomo  che  ha distrutto l’ambiente per soddisfare la propria esaltazione di potere  lasciando all’umanità la testimonianza di ciò con  giganteschi simboli di pietra.

Per erigere quei simboli di privilegio, disboscavano il territorio,  distruggevano i raccolti e le risorse operose; poi, senza più legna non poterono costruire barche e  si resero inaccessibile il mare e con il mare la pesca, il cibo.

Alla fine si contrapposero  l’uno contro l’altro, per padroneggiare la paura e la fame; affidandosi ad idoli sempre più esigenti nella ferocia.

Oggi, un paradosso: addossare responsabilità salvifiche delle responsabilità che  loro competono ad eventi esterni e inevitabili.

Responsabilità che, per lucro, interessi di bottega e menefreghismo, esaspera  la tragica e volontaria  teoria  di non essere ospite nella natura; esenti da colpe, nel violentarla.

È inutile esplorare il campo degli inquinanti che l’uomo, pervertito a sé stesso,  sversa sulla terra.

Si chiamano “pop”,  ma nulla hanno a che vedere con la musica:  sono acronimo di “persistent organic pollutans”.

Sono  tossici: velenosi e cancerogeni.

Siamo tutti già un poco “broncosauri” – se destinati alla sopravvivenza- ed è inutile aspettare che il ciclo di purificazione della cattiva coscienza riprenda a funzionare.

Quintali di amianto a cielo aperto non sono una installazione post-moderna.

Sul versante legislativo,  sembra che la caccia  allo sversatore impazzito  non sia neppure iniziata;  poiché si lascia piena autonomia alle fabbriche di produrre lavoro e malattie: un vero risparmio o investimento ed incremento della produzione anche sanitaria e farmacologica?

C’è qualcuno che abbia pensato che ogni struttura  inquinante - anche una conceria o una officina o  una produzione intensiva e selvaggia di allevamento animale o una farmacia e comunque ogni attività produttiva sul territorio - abbisognasse di una figura gestoria dello smaltimento, con  responsabilità anche penale?

Una figura, che io definisco e ho elaborato come “amministratore dell’ambiente,  che debba   rendere conto - sempre, ogni giorno -  alle autorità amministrative e penali  dei rifiuti prodotti e della filiera di trasferimento per lo smaltimento e la purificazione e/o riciclo.

Intanto,  prove di “fine del mondo”.

 

 TORNA

 

 

la classe è acqua

 

Da “lei non sa chi sono io” a “sei  una zoccola”  c’è un mare di “ineleganze linguistiche”  alle quali  pare  che la magistratura abbia concesso (ancora, a volte, concede)  salvacondotti ed esoneri da  responsabilità. 

Non può, quindi,   destare meraviglia la motivazione contenuta in una richiesta di archiviazione laddove il magistrato (vpo e donna)  precisa: “le espressioni riferite come offensive ed oltraggiose ben possono ricondursi a quello che viene definito normale turpiloquio, rientrante però nel gergo comune che non viene percepito come offensivo e denigratorio; in particolare l’espressione avvocato del cacchio ha certamente un carattere tenue e deve valutarsi nel contesto di una situazione nella quale certamente gli animi si sono esacerbati; la frase mi avete rotto il cazzo non può allo stesso modo rivestire carattere ingiurioso ben potendo essere equiparata alla frase ˂ mi avete rotto le scatole˃ “.

Una operazione “estetica” praticata dalla donna-magistrato che riconduce a “normale turpiloquio”  la frase;  fino al punto di scalfirne la incisività,  trovandole un equivalente più blando e meno grave.

Assistiamo inerti  –e siamo costretti a “giustificare”-   una esasperazione  del linguaggio televisivo,  a ridosso di una sfida politica,  che ormai si gioca tra “pagliaccio”  e altri epiteti; fino a chiedere conto, tra l’indifferenza generale,  del numero e della identità delle ”mignotte” candidate.

Si ricorre al linguaggio semplificato  (che riflette caratteristiche di una società patriarcale) attraversato da giudizi che sono, insieme,  generalizzazione e banalizzazione asimmetrica della realtà.

Tenendo ad attingere consenso,  presso  livelli culturali  più insidiosi,  con trappole  linguistiche: con giudizi – blindati nell’anonimato-  lasciati alla fantasia dominante, alle immagini collettive,  alle opinioni correnti.

Siamo lontani dalla indignazione scaturita dalla frase pronunciata da un  ministro inglese rivolta ad un vigile:  “ lei è un plebeo” (pare che il ministro,  dimissionario, abbia negato di essersi espresso con “fottuto plebeo”,   rivendicando di aver pronunciato  solo il termine “plebeo”;  ma questo  è il tipico humor inglese, molto pittoresco). 

In Italia  ci sono voluti anni di impunità alla frase ”lei non sa chi sono io” (frase  che percorreva l’intera penisola:  abusata da tutte le classi sociali e gettonata da molti potenti –di  insita comicità che aveva l’effetto  di ridicolizzare  chi la profferiva-)  prima che la Corte di Cassazione la valutasse “reato di minaccia”.

Nella sentenza del “lei non sa chi sono io” la Corte di Cassazione ha sottolineato  che  “nel reato di minaccia l’elemento essenziale è la limitazione della libertà psichica mediante la  prospettazione del pericolo” aggiungendo, per escluderne ogni  neutralità ,  che  ” l’espressione  (“non sa chi sono io” ) colorava e riempiva di contenuti minacciosi la frase perché nulla ne circoscriveva il significato all'adozione di iniziative lecite”.

Ancora più incisiva la decisione della Suprema  Corte in  una recentissima sentenza, laddove censura  comportamenti generalizzati che vedono gli uomini  protagonisti di “apprezzamenti”  fuori misura:  “ ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa”  continuando “se l’accusa e quella  di essere una puttana o una zoccola non solo si offende gravemente la sua reputazione ma la pone in una condizione di marginalità e di minorità”.

Un potenziamento e una aggravante di genere che  mette in sicurezza processuale  la vittima.

Sarà bene, comunque,  che si cominci a censurare, nel sociale,   la portata di espressioni scritte o pronunciate poichè  è necessario  ripristinare,  quantomeno, la “classe”,   il buon gusto, decaduti a compiacimento di fornire  “prova di colpevolezza” diffondendo  una percezione negativa delle persone che si coinvolgono.

Ma “la classe è acqua” o siamo preda di una generalizzata esenzione di responsabilità;  del genere; “ tutti colpevoli,  nessun colpevole?”

 

 TORNA

 

 

i bugiardini della medicina

 

Che cosa è un farmaco? Un insieme di  sostanze con più componenti tra cui un principio attivo che è  in grado di modificare una o più funzioni dell'organismo ed è usato in genere per curare, contenere e  prevenire le malattie.

L’impiego dei medicinali, nell’ambito di un trattamento farmacologico, deve avvenire nel rispetto delle indicazioni terapeutiche che sono state previamente approvate dal Ministero della Salute.

Elementi riportati nella scheda tecnica dei medicinali autorizzati all’immissione in commercio e nel foglietto illustrativo (bugiardino) laddove si leggono posologia,  modalità di somministrazione, controindicazioni.

Fin qui sembra tutto regolamentato e  la “medicina” (intesa come quel rimedio rassicurante che le nostre mamme ci hanno somministrato per il nostro bene, con l’aiuto del  medico di famiglia suo  alleato/ stregone)  sembra ancora essere quel rimedio e quella soluzione amara, ma necessaria, per rispettare e promuovere la salute, bene comune.

Oggi una coscienza collettiva più critica, unitamente all’accesso a  una informazione, come dire,  indipendente,  solleva molti punti di domanda che coinvolgono anche rimedi universalmente riconosciuti come salvezza (dell’umanità) da malattie mortali e/o invalidanti come, per esempio,  i vaccini obbligatori per i bambini.

Il rifiuto di somministrare i vaccini ai bambini, peraltro,  porta alla conseguenza di dover sottoscrivere un dissenso informato;  con tutti i rischi conseguenti alla assunzione di responsabilità a  forte contenuto emotivo nell’operare tale scelta

La responsabilità circa effetti collaterali, anche gravissimi,  viene dalla legge demandata ai medici;  nonostante fonti istituzionali  internazionali  sottolineino le criticità  dei farmaci; fomentando dubbi e perplessità sulla delicata  materia.

Sul fronte della informazione,  sugli effetti collaterali contenuti nel bugiardino,  bisogna sottolineare, purtroppo,  che solo quando risulta una evidenza non segnalata dalla casa farmaceutica scatta una precisa responsabilità diretta in capo alla stessa;

I fatti, poi,   vengono in emergenza  soltanto all’allorquando  siano stati accertati stabilmente  in sede giudiziaria.

I casi più eclatanti, tra i tanti continuamente in emersione,   riguardano la sindrome di Lyell, conosciuta anche come necrolisi tossica epidermica: una patologia molto grave che, spesso,  porta alla morte.

La particolarità  è che la necrolisi tossica epidermica si contrae come reazione a seguito dell’assunzione di farmaci per la cura di malattie quali l’uricemia. Il composto chimico, ovvero il principio attivo,  presente nel farmaco, risulta presente  in almeno  duecento ulteriori  farmaci!

E’ emerso, ancora di recente,  che pazienti affetti da morbo di Parkinson, che assumevano un dopamino agonista,  avevano cominciato a soffrire di gravissime compulsioni al gioco d’azzardo e a sviluppare una gelosia patologica: a queste conclusioni  è pervenuto uno  studio dell’Università di Pisa, analizzando un campione di 805  soggetti,   per monitorare  gli effetti del farmaco.

Da rilevare che la Magistratura francese ha condannato una importante  casa farmaceutica a favore di  un paziente parkinsoniano che, a seguito dell’assunzione di un dopamino agonista (ropinirolo) aveva sviluppato una compulsione incoercibile per il gioco d'azzardo.

Sviluppando, ancora,  una compulsione per il sesso omosessuale, subendo anche violenza e tentando il suicidio più volte.

L'azienda farmaceutica ha dichiarato pubblicamente che il farmaco poteva avere questi effetti, inserendoli nel bugiardino, solo nel 2006.

Nel mondo ogni anno si spendono più di 3 mila miliardi di dollari in servizi di salute; in gran parte finanziati dalle tasse dei cittadini.

Una cifra molto ingente che può deviare dal progetto di promuovere la salute delle popolazioni e il mantenimento e il miglioramento delle strutture sanitarie; favorendo ed agevolando, di contro,  la corruzione ovvero quel  sistema illecito che comporta una serie di azioni non sempre identificabili  e il cui fine può anche toccare la manipolazione di informazioni sulle sperimentazioni cliniche.

Un mondo complesso e articolato in molte sfaccettature non sempre percepibili  poiché non esiste una linea di demarcazione netta tra business,  controlli e diritti costituzionali e dove i detrattori, imputando alle multinazionali un controllo sfrenato del mercato, arrivano a immaginare   una azione mirata  -da parte di gruppi farmaceutici - alla comparsa di nuove malattie.

Una  base per una sempre maggiore espansione del mercato globale: una sorte di fidelizzazione preventiva

Una efficace politica di controllo  antifrode e più  Agenzie indipendenti del farmaco, non correlate all’ industria, potrebbero  già  togliere forza alle lobby internazionali.

La sottoscrizione del consenso informato è imposto dalla legge solo in pochissimi e specifici casi. Il resto è lasciato al rapporto di riconosciuta competenza  del medico – ed  all’aggiornamento professionale di quest’ultimo - e alla  conseguente fiducia da parte del paziente.

La mancanza di questa relazione riconduce ad  una barriera  burocratica fatta di un rapporto impari.

I bugiardini sono sempre all’agguato ma  una buona notizia viene proprio dal Ministero della Salute che, pare, voglia cominciare ad eliminare dal bugiardino il linguaggio astruso ed estremamente  tecnico  - accessibile solo agli addetti ai lavori -  per sostituirlo con grafici comprensibili e semplificati alla portata non solo del paziente ma anche del medico.

Oggi, comunque, si deve registrare  una mancanza di regole e di diritti.

 

TORNA

 

 

tasse psichedeliche

 

Entri e ti trovi circondata da musichette sintetiche, scrosciare di monete, tra  penombre.

Il fumo non è proibito. In salette accattivanti, donne, gli occhi vuoti, siedono come manichini. Quasi  automi anestetizzati. Con in grembo ciotole di monete pronte a essere ingoiate. Da un inferno di  schermi luminosi che vantano nomi adescativi:  “morte venezia”, “halloween ”, “far west”, “cha cha cha”.

Il fenomeno è diffuso. Pericolosamente alimentato dallo Stato che, anziché combattere questa dipendenza -che si chiama ludopatia – ne  lucra in maniera perversa; favorendone l’incremento.

Non altrimenti può valutarsi il naufragio della norma che veniva ad imporre la localizzazione delle “macchinette mangiasoldi” ad  una distanza minima di 500 mt dalle scuole.

Il fenomeno sociale della ludopatia è grave.

Molto poco esplorato quello al femminile, al quale mi riferisco,: casalinghe, pensionate, disoccupate e madri di famiglia forse depresse, forse scoraggiate, forse socialmente svantaggiate e forse neppure rientranti nelle cifre elaborate da studi del settore.

Il  femminile  che vive  in totale solitudine un vizio che nulla ha a che vedere con il gioco;  perchè  da gioco sociale tracima a  gioco problematico; e, poi, a patologia che crea disagio, isolamento, vulnerabilità.

Con gravissime ricadute nella economia e nella etica familiare.

Il gioco si propone come  una attività distruttiva che annulla la percezione del valore della persona per trasformarsi nella totale distruzione dei valori sociali e personali. Così che emergono - a esplorare questo ambiente sommerso-  gravi problematiche legate alla prostituzione praticata per procurarsi liquidità.

Roger Caillois, riferendosi ai giochi elettronici, ha sostenuto   “giochi che si basano sulla ricerca della vertigine; consistono in un tentativo di distruggere per un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico. Si tratta di accedere ad una specie di spasmo, di trance o smarrimento che annulla la realtà con vertiginosa precipitazione “ con una sintesi di valore straordinaria: “ uccidono letteralmente il tempo senza fecondarlo”

Lo Stato italiano, dopo averne combattuto l’illegalità e represso la clandestinità,  è diventato, come dire,  morbido socio partecipativo: già nella previsione di lucrare, con l’imposta sostitutiva,  sul movimento finanziario che si muove ( l’industria del  gioco in Italia ha un fatturato prodotto di  50 miliardi di euro e si posiziona al terzo posto, dopo Eni e Fiat) ma,  poi,  non recuperando l’iva sui proventi (6%) e non provvedendo ad investimenti nel sociale, con strutture di assistenza e recupero.

L’esercito di passivi automi,  abbacinati dall’effetto allucinogeno delle “macchinette mangiasoldi”,   sono un esercito di malati compulsivi; di cittadini con la coscienza personale, civile e politica addomesticata alle distrazioni illusorie, alle attività pericolose e devastanti;  ossessive fino al punto di addormentare le coscienze rafforzando passività e disimpegno; una popolazione i cui diritti alla salute vengono sacrificati al profitto.

Ma rappresentano un comodo e quieto investimento. Uno strumento “facoltato” al finanziamento per i gruppi multinazionali che detengono le concessioni e per il bilancio dello Stato (che poi, paradossalmente, non introita l’iva; per un importo che potrebbe assumere, se incrementata l’aliquota,  il valore di 10 miliardi di euro da destinarsi alle famiglie,  alla imprese, alla cultura e alla sanità). 

Resta comunque che valore costituzionale più sentito dalla collettività è  il diritto alla salute, previsto all’art. 32;  tale diritto si deve ricondurre a diritti soggettivi verso i quali lo stato è portatore di doveri.

E’sufficiente aver inserito il gioco d’azzardo nei servizi essenziali di assistenza, o permane una grave carenza, anche in funzione della prevenzione, che potrebbe percepirsi delitto contro l’incolumità pubblica? 

E sotto quale voce lo Stato iscrive o iscriverà gli introiti:  “tasse psichedeliche”?

 

TORNA

 

 

l'effetto farfalla

 

In Italia la corruzione ha assunto una natura sistemica" è quanto  ha  dichiarato il Presidente  della Corte   dei Conti,  Luigi Gianpaolino,  all’inaugurazione dell’anno Giudiziario,  presentando un  dossier raccolto dai procuratori regionali per documentare  i    pregiudizi   economici che, nel 2012, si calcolavano in circa 300 mln.

Corruzione, frode e abuso sono i reati più ricorrenti segnalati nel dossier; reati  capaci di compromettere il prestigio, l’imparzialità e  il buon andamento della pubblica amministrazione e la stessa economia nazionale.

Gli ultimi avvenimenti radicalizzano e amplificano questo scenario portandolo oltre confine: un pasto internazionale.

La conseguenza di ciò è nella pressione fiscale -che ha raggiunto il 55%, persino sottovalutato  e   che posiziona  l’Italia  al  vertice nel mondo,  in fatto di gabelle-  con importi introitati  che hanno  raggiunto i 330 miliardi - dal 2008 ad oggi, secondo dati forniti dalla CONFCOMMERCIO. Di  contro un quasi azzeramento dei servizi sociali.

La povertà in Italia ha raggiunto livelli di guardia che non si registravano da anni e che. peraltro,  regala al meridione un primato: quello della disoccupazione, questa  già endemica.

C’è un legame fortissimo tra crisi economica e corruzione (secondo il rapporto della Transparency International -rapporto dedicato alla corruzione nei paesi europei-) che, ancora una volta, vede l’Italia ben piazzata anche in questa performance; atteso che la corruzione va di pari passo con deficit e debiti più alti.

Ma  l’Italia è stata però fanalino di coda relativamente  al recepimento delle convenzioni internazionali pure sottoscritte,  sulla corruzione e sulla criminalità organizzata.

Un nutrito pacchetto di regole sanzionatorie che andavano e vanno  dalla repressione della corruzione attiva e passiva di pubblici ufficiali, di parlamentari, di privati, di funzionari internazionali, di giudici e funzionari di tribunali, al traffico di influenze, attivo e passivo, riciclaggio dei proventi della corruzione e quelli contabili (fatture, falso in documenti contabili).

La recente, tardiva,   legge 190/2012  ha, purtroppo,  trascurato  reati quali  prescrizione, falso in bilancio  e auto riciclaggio (rinviati nel tempo: quello italiano).

Ma, al di là delle analisi e dei tecnicismi, al di là delle  ricette salvifiche proposte dagli chef della politica -sul cui risultato finale molti temono una dolorosa gastrite- , non tutti analizziamo un effetto che i matematici descrivono come caos deterministico.

Secondo questa teoria un evento come lo sbattere o meno le ali della farfalla può  far evolvere la situazione atmosferica in modo radicalmente diverso e imprevedibile.

L’ “effetto farfalla”  di un solo atto di corruzione  potrebbe portare – porta-  una ricaduta sulla  vita delle persone.

Esseri umani  -donne, uomini,  bambini, anziani, malati, lavoratori-   che debbono, sono  - a conseguenza della“farfalla corruzione” -  ignorati dal sistema e che subiscono, come tutti gli ultimi sulla terra, vessazioni nella sfera sociale, familiare, lavorativa e personale.

Un uomo perde il lavoro.

Un uomo perde autorevolezza.

Quell’uomo perde la stima o si flagella di disistima.

Quello stesso uomo non può garantire assistenza  ai genitori anziani.

Quello stesso uomo non può garantire i bisogni dei figli, non può garantirne  gli studi.

Quello stesso uomo non può neppure garantire un salubre sviluppo della propria famiglia e di se stesso.

Quello stesso uomo non può assicurare cultura, né uno svago.

Quello stesso uomo non può più  gestire una rabbia sociale che comincia a serpeggiare e che lo coinvolge.

Quello stesso uomo comincerà a perdere la serenità  familiare e poi la solidarietà degli amici.

Quello stesso uomo comincerà a perdere  l’onore perché non potrà ripagare i piccoli prestiti e, poi,  non potrà pagare tutti i debiti ( solo i ricchi possono accumularli con sufficienza). 

Quello stesso uomo perderà la casa.

Quello stesso uomo perderà la salute.

Quello stesso uomo perderà gli affetti.

Forse perderà la vita.

Entrerà nel computo delle statistiche?

E l’ “effetto farfalla”?

 

 TORNA

 

 

non sono candidabile

 

In questo periodo il tema più dibattuto sembra essere l’incandidabilità di quanti hanno subito condanne.

I comitati dei garanti dei vari  partiti stanno lavorando a “liste pulite” e formulano  ripensamenti anche su candidature già annunciate.

A scanso di ogni equivoco,  per il ” più pulito non si può”, emerge la necessità di non candidare chi abbia subito una condanna in primo grado o, ancor di più (fino a candeggiare e non solo non candidare),  chi abbia  ricevuto un rinvio a giudizio.

Capita che io sia stata querelata per diffamazione (originariamente per calunnia, poi derubricata) da un Giudice Onorario a seguito di  un mio ricorso al CSM nel quale ipotizzavo  essersi manifestato un comportamento negligente e superficiale, da parte di quest’ultimo  invocando perciò  il controllo disciplinare in virtù e in riferimento al punto 3 del sub capo c)-  della LG  150 del 25 luglio 2005 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 175 del 29 luglio 2005)

I principi insistiti nel ricorso, richiamati con linguaggio tecnico, non lambivano certamente la soggettività né le attribuzioni acquisite alla  personalità,   poiché lo stesso si concretizzava   nell’utilizzo di termini normativi legalmente definiti per esercitare il diritto di critica all’esercizio della giurisdizione, per esporre i fatti e le circostanze dei fatti,  per sollecitare accertamenti in ordine alla ritenuta mancanza, nelle intervenute deliberazioni, dei requisiti di  equilibrio, imparzialità e terzietà -come indicati  dai Regolamenti del CSM .

Invero il Giudice  Onorario, titolare di cinque procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo da me notificati ne aveva provveduto alla revoca senza indagini di merito, senza prove documentali depositate dalla opponente, con l’ulteriore aggravante della condanna alle  spese a mio carico, pure  decidendo sulla sola competenza in assenza di sentenza sull’an: insomma beffa e  danno.

Ho ritenuto, ritengo, debbo ritenere, che la querela avesse tutte le caratteristiche di un atto ingiustificato e sovrabbondante ma, ciò nonostante,  correttamente e convintamente,  presente ad una udienza in trasferta,  ho dichiarato, in piena coerenza,  di rinunciare espressamente a ogni  eventuale prescrizione.

Sembra che la sentenza sia stata a me sfavorevole e, quindi,  condannata per diffamazione (dico sembra,  poiché  il provvedimento non è stato ancora notificato né a me né al mio difensore, talchè, peraltro, non sono in grado di riferire  dettagli della motivazione).

Agirei, comunque, di nuovo nell’azione proposta perché credo che sottrarsene  significherebbe  denegare in radice  i meccanismi di controllo che ancora rappresentano le garanzie del percorso democratico e dei  principi difensivi protetti dalla Costituzione; quale ne sia l’esito.  

Ma, se fossi stata folgorata da un irrefrenabile desiderio di essere “candidata”?

La questione morale viene brandita come una spada e sembra stemperata in tanti rivoli; la giustizia appare discontinua e malata; potrebbe succedere che una eventuale elezione sarebbe  fonte di disagio per il mio partito potendo  essere bersaglio di detrattori (semmai in una arena permeata da particolari esigenze e  tematiche etico/morali).

Un incubo,  dove i detrattori inferociti mi butterebbero in faccia la gravità della condanna e cercherebbero di snaturare il mio impegno e  mi additerebbero al pubblico ludibrio.

Potrei, forse,   in quel contesto opporre che le mie denunce subiscono una sorte diversa o addirittura di archiviazione preventiva? No! Non potrei perché “cantano” le carte.  A volte,  anche quelle buone per il riciclo.

C’è da essere d’accordo con un leader,  impegnato nel controllo serrato in corso,  che dichiara: “noi non accettiamo tribunali improvvisati, i nostri codici etici sono più rigorosi delle leggi dello stato

Uno zelo spalmabile secondo le circostanze e i protagonisti tra questione morale e opportunità.

Non sono candidabile!

 

 TORNA

 

 

Bok Dong e le altre trecentomila

 

Sono state oltraggiate due  volte queste donne, giovani , adolescenti. Qualcuna ancora bambina.

Strappate innocenti e inconsapevoli alle famiglie. Con l’inganno e la brutalità degli occupanti. Con la logica antica dell’asservimento sessuale. Deportate e mandate a lavorare nei bordelli. Umiliate e ferite nel corpo e nello spirito. Alla mercè  dei soldati, alla barbarie dei padroni, all’insulto della profanazione dei diritti umani.

Si disse che furono volontarie lavoratrici per i campi e le fabbriche. Invece, furono “donne di conforto”.

Sono state oltraggiate dalla storia  perché è stato tardivo il riconoscimento degli abusi perpetrati nei  loro confronti. Così come sono state tardive le scuse del governo nipponico arrivate dopo anni di ostinata negazione dei fatti,  rifiuto di aprire gli archivi. Solamente  dopo  tiepide ammissioni  di ex  ufficiali coinvolti.

Il riconoscimento delle responsabilità belliche in estremo oriente  è stato un percorso lungo e non scontato;  svelato intorno agli anni novanta.

Si è concretizzato  con il doveroso sentimento di profonde “scuse e doloroso rimorso”  espresso alle donne sudcoreane - maggiormente coinvolte – e alle  donne  di  altre regioni asiatiche dominate dall’impero del Sol Levante, tra il 1910 e il 1945.

Ma la formalizzazione del  risarcimento riconosciuto - dal governo di Tokyo al governo di Seul -  è   marginale rispetto alle scuse pretese con grande  fermezza  per ripristinare la verità storica.

 “per non dimenticare”: come ha rivendicato, per tutta la vita,  Bok Dong.

Per non dimenticare. Noi non possiamo né vogliamo dimenticare.

 

 TORNA

 

 

la  libertà della corruzione

 

Siamo ormai tutti operatori e vittime della corruzione.

La nostra libertà è ormai certificata da atti che declinano da una morale o dal piano di valori, almeno naturalistici.

La corruzione diventa così una malattia incurabile e  corrompe ogni altra vitalità: mi riferisco non solo a quelli che la praticano in via diretta  ma, anche,  a quelli che guardano praticarla senza impedirla, senza additarla, senza isolarla, senza censurarla.

I corrotti lungi dall’avere riprovazione sociale godono, oggi,  di una sottile invidia al loro prestigio criminale;  prestigio che  serve per continuare l’opera di distruzione della struttura sociale ed  economica della collettività; anche esercitando influenze.

Non è più un metodo di sopravvivenza –per certi versi amaro e drammatico- è l’ordito sul quale si delinea la società; senza,  ne cadrebbero, ormai,  i presupposti, le ragioni, gli scopi.

Di corruzione in corruzione, la macchia di tentazioni  si è allargata e non solo non ci rendiamo conto di respirarla come l’aria, ma la vediamo istituzionalizzata senza percepirne sulla pelle la portata e, soprattutto, la mortalità.

La corruzione non ti fa sedere a tavola, ma ti fa mangiare di nascosto.

Ed è un paradosso che senza la corruzione non ci sia più libertà. Libertà di aspirare a un posto di lavoro, a poter essere un paziente  dirottato  in studi a tecnologie avanzate,  poter esercitare il diritto di cittadinanza in ogni sede e circostanza.

La libertà della corruzione.

E i corruttori sono i nuovi e soli liberi.

 

 TORNA

 

 

la pasta italiana

 

La pasta italiana, un prodotto di eccellenza nel mondo,  non è lavorata con  grano italiano,   ma è frutto di miscele con  provenienze  estere di cui il mercato è controllato da spregiudicate  multinazionali che impongono prezzi al ribasso;  a discapito del grano, degli agricoltori e della economia italiana.

Si calcola che, negli ultimi anni, ben 685.000 ettari, una volta coltivati a grano, siano oggi  incolti;  o destinati ad attività produttive fortemente  inquinanti.

La fiducia  dei consumatori -che legge sulla pasta venduta ai supermercati “made in italy”-  è stata messa a dura prova in questi giorni per lo scandalo dei tortellini “alla carne di cavallo” e torna ricorrente  la scarsa informazione che investe il settore.

I controlli dovrebbero lavorare sulla tracciabilità degli alimenti in tutti i suoi passaggi; quindi  con una consulenza scientifica, indipendente, sulla sicurezza degli  alimenti a seguito di segnalati  allarmi  sui rischi legati alla catena alimentare.

É notizia di questi giorni, legata ai tortellini “alla carne di cavallo”, che la CODACONS abbia intenzione di  presentare un esposto alla Corte dei Conti e alla Procura della Repubblica al fine di vedere accertato il corretto utilizzo di fondi pubblici da parte di un ente istituito per tutelare i consumatori europei (EFSA  - autorità europea per la sicurezza alimentare). 

“La mancanza di regole alimenta le mafie”,   denunciano le associazioni di  consumatori.

In  un ristorante che presentasse l’elenco dei prodotti locali in uso nella cucina - con rigorosa indicazione dell’azienda e delle peculiarità e degli ultimi controlli – potrei, serenamente, insieme ai turisti,  scegliere “spaghetti alla puttanesca” fatti con grano “tutto”  italiano,  tortellini di “mamma concetta”, al ragù senza concentrato cinese.

Chiedendo il “caciocavallo” potrei avere  “il monaco”,  proprio quello prodotto sui  monti lattari.

Una utopia?

Altrimenti ci ciberemo di tortellini alle sanguisughe, agnolotti al glicole di etilenico - che non è neppure un dimagrante-,  pesce al nitrato di potassio e,  per finire,  un “ottimo” vino,  ottenuto con la fermentazione di zuccheri di natura variegata,  diversi da quelli dell’uva (una  pratica ammessa dalla UE!).

 

 TORNA

 

 

la casa di Jessica e l'applauso

 

Ho conosciuto Jessica: “la casa di Jessica non si tocca”.

È stato ad un convegno tenuto nell’auditorium del Tribunale di Napoli.

Il tema: ambiente, dissesto idrogeologico, edilizia, reati ambientali, condoni, utilizzo dei beni sequestrati alle mafie.

Ricco della presenza annunciata di personalità amministrative locali e statali,  gli interventi del ministro dell’ambiente, del sindaco di Napoli, del governatore della regione che non ci sono stati perché,  evidentemente,  giustificati dalla concomitanza con  altri impegni istituzionali.

Ho seguito le diaspore tra due amministratori che sembravano aver trasferito in Tribunale una seduta consiliare.

Di particolare  interesse,  l’intervento del dott.  De Chiara,  titolare, per molti anni, della sezione per  reati ambientali e ora Procuratore Generale a Salerno, il quale ha evidenziato la necessità di operare utilizzando risorse umane e logistiche già esistenti sul territorio (nello specifico il genio militare) senza attendere leggi con coperture finanziarie improbabili e  inesistenti, stante  i deficit che si registrano nelle casse.

Ho sentito un vociare; poi ho visto  una signora, con il marito e Jessica. Jessica, una fanciulla disabile.

Chiede di intervenire per porre una domanda,  sulla  vicenda di demolizione della casa abitata da Jessica,  al magistrato presente al convegno, che ne aveva firmato l’ordinanza;  demolizione eseguita con 600 unità tra polizia e addetti.

Dopo un momentaneo disorientamento,  il moderatore  del convegno si è affrettato a sottolineare  la modalità della richiesta, la sua irritualità,  e a censurare, finanche,  l’utilizzo di minori per tale pubblica sortita;  fino all’allontanamento gentile, fermo, quasi premuroso,  da parte della polizia.

Tra il momento della protesta e quello dell’intervento è trascorso  un interminabile tempo, quasi teatrale, e durante il quale si è consumato ogni dovere: quello di una risposta, forse, ma, soprattutto,   il dovere di un applauso di solidarietà per la vicenda umana.

Un tempo perso e non più giustificabile; una pausa troppo lunga, imbarazzata: unica reazione della    platea. Ho avvertito un grande disagio e turbamento.

Pausa.

Alla ripresa dei lavori il procuratore dott. Donato  Ceglie, con garbo e signorilità, ha espresso la sua solidarietà alla vicenda umana della famiglia e di  Jessica.

La fantasia ci può portare a porre altri punti di domanda ai partecipanti di quella tavola rotonda;  alle istituzioni e a quanti, tanti, troppi, che  non dovrebbero permettere che intere città sprofondino nel fango, che  interi boschi brucino, che scuole crollino,  che strade vengano costruite con rifiuti tossici, che ci siano discariche nei centri abitati  o in prossimità di essi, se non in  terreni agricoli, o che venga attentata costantemente la salute pubblica.

Che si possa far passare nella indifferenza generale la totale  assenza di un piano di risanamento del già esistente, che ci crolla addosso, progettando, al contrario, costruzioni selvagge, ponti, o sventrando  montagne .

No! Scrivo soltanto  per quell’applauso mancato; per quell’atto umano, doveroso e gentile.

Scrivo per Jessica, una ragazza che sembra voler afferrare il mondo impossibile con un movimento che si arresta solo nello sforzo di voler concedere un sorriso; sorriso  che accende  occhi immensi e trasparenti.

 

TORNA

 

 

avvocatura donna e discriminante

 

Oggi, “la nozione di etica professionale dell’avvocatura è da intendersi estesa al di là delle singole codificazioni deontologiche, in quanto comprensiva di disposizioni contenute nelle normative sui diritti fondamentali, dell’esperienza giuridica, delle convenzioni sociali e ‘degli aspetti etico-morali che emergono dal sostrato culturale di un sistema sociale’” (G.C.Hzard – A. Dondi, Etiche della professione legale, 2005), talchè “il bilanciamento di questi diritti e doveri costituisce l’essenza dei problemi dell’etica professionale dell’avvocatura” (A. Marino Marini, Diritti umani ed avvocatura, 2009)

Voglio qui riferirmi, in questa breve nota di fine d’anno, alle tecniche di linguaggio e comportamentali che operano una discriminante  sociologica nei confronti delle donne avvocato nell’ambito forense.

Già l’avv. Annamaria Alborghetti (prima Presidente di una Camera penale in Italia), nell’intervista rilasciata al Corriere del Veneto corriere.it del 2 marzo 2011) sottolineava episodi della sua professione, sintetizzando efficacemente:  «Trent’anni fa nei tribunali ci si rivolgeva alle donne in toga soltanto chiamandole "signorina" o al massimo "dottoressa", mentre un giovane neo-laureato, anche alle prime armi, veniva sempre definito "avvocato". I colleghi maschi poi ti trattavano con sufficienza o si sentivano in dovere di corteggiare, invitare a cena. Una volta poi, le donne si occupavano solo del diritto di famiglia, le penaliste erano pochissime» e, ancora  «Acquisire credibilità non è stato così facile e immediato. Ricordo il primo processo in Corte d’Assise, il giudice praticamente ascoltava solo i colleghi maschi, non dava retta ai miei interventi. Ho dovuto impormi con aggressività per essere ascoltata».

Residui di tali comportamenti  si rivengono anche odiernamente.

Ho raccolto, tempo fa, una voce che riferiva di una avvocato che non avrebbe avuto diritto alla liquidazione della parcella, contestata in sede di opposizione,  poiché il legale di controparte sosteneva che la collega era stata  già  “pagata” dalla relazione  sentimentale intercorsa con il suo ex cliente. Contestazione che appare, ancora oggi, come uno sfregio da “caserma”, portato a una donna.

Nessun avvocato donna, viceversa,   sosterrebbe o sostiene  le ragioni di una parte con modalità tali da coinvolgere giudizi, espressioni, “presentazioni” della figura della controparte suscettibili di essere considerate offending.

La sociologia della comunicazione, richiede la vigilanza della governance dell’Avvocatura e,  anche,  una più vigile attenzione da parte della Magistratura;  perché linguaggi e comportamenti scomposti non diventino linguaggi di genere e di uso corrente.

Invero il linguaggio (e il comportamento) potrebbe diventare uno strumento irragionevole e illegittimo per raggiungere obiettivi di altra natura o prestarsi a coperture o favoreggiamenti.

Non vado oltre, perché potrei scivolare su vicende personali all’esame delle Corti Civili e Penali, nonché disciplinari.

 

TORNA

 

 

popolo e populismo

 

“ ... la definizione di popolo non è caduca : gli uomini tra i quali si vive comunemente possono venire dal popolo,ma non sono il popolo. Quando incontri uomini fra i quali ti sembra che la vita abbia un altro peso,

uomini che considerano la sopportazione del peso come la comune sorte umana, che accettano anche il peggio con animo tranquillo e non stanno a meditare troppo neppure sulla morte, uomini nei quali la parola è più vicina al sentimento, il pensiero più vicino all’azione, uomini il cui giudizio ti insegnerà la realtà punto su punto, la cui mancanza di dialettica ti sorprenderà, nella cui cerchia gli eventi del mondo ti appariranno meno confusi, e più sensata perfino la sofferenza, nella cui compagnia ti sarà più difficile affermare te stesso e collaborare che non conquistare  la loro simpatia, uomini che ti faranno spesso sorridere per la loro credulità e ti umilieranno con la loro spontanea signorilità, uomini fra i quali, sentendoti a casa tua e forestiero insieme, provi una sorta di nostalgia per una situazione spirituale che non ti è estranea, ma che tuttavia è più inaccessibile del paradiso perduto: sappi allora che sei tra il popolo. “.

In tal modo Hugo Von Hofmannsthal  si esprimeva sul  significato di popolo. Contro chi ne aveva falsificato e malmenato l’autenticità  e che, con elucubrazioni  cerebrali portavano,  allora come ora,  la società verso l’abisso;  travisandone, a proprio utile,  le fecondità storiche  senza comprensione,  senza sfumature, senza capirne  le domande, senza saperne di risposte. Ignorando  l’essenza stessa dell’anima popolare.

Ma, il popolo rimane quello  numeroso, vicino, carnale , spontaneo.  Quello  per il quale la parola, sempre più  smarrita,  proprio perché  smarrita,  è pur  sempre  più vicina al sentimento.

 

TORNA

 

 

trompe-l'oeil

 

Tanti luoghi comuni su Napoli e la sua gente; tanto da farne un trompe-l’oeil.

Inconsapevolmente tutto si infetta come una virosi nella quale l’agente infettante è l’immagine stessa del degrado, dell’apatia della indifferenza. Della teatralità svuotata del gesto significante; divenuta  una gestualità informe, senza contenuti, senza vibrazioni.

É negli occhi della gente,  nelle saracinesche dei negozi abbassate, nello spettro della disoccupazione incalzante.

É nelle aule dei tribunali,  dove i rinvii sono, molte volte,  oltre il termine di una vita media.

È nei  rapporti di forza sbilanciati, nelle sudditanze.

È nella inerzia fine a sé stessa;  che è l’inizio di ogni oscenità destrutturante.

È  nella logica del profitto che attraversa la socialità come una eruzione simbolica, per una morte annunciata:  la nuova rassegnazione all’impotenza nel modificare la vita.

È nel prestigio criminale -a tutti i livelli-  che avanza e che ruba rubando  spazi vitali. Che rende i soggetti “socialmente estranei”, quindi inoffensivi e ininfluenti. Che   gestisce l’emergente  miseria dei nuovi poveri  come una nuova creatura da custodire, da alimentare con il nuovo potere:  una mammella da cui succiare per una realtà da mantenere, ampliare,  replicare all’infinito possibile.

Tutto si è amplificato: l’evento  superato dalla rappresentazione negativa dell’evento stesso.

Il fenomeno dei rifiuti prende un’altra forma: l’emergenza miseria si organizza.

Vengono invase piazze dove –apparentemente improvvisati- si organizzano mercati domenicali e infrasettimanali: extracomunitari espongono oggetti prelevati direttamente dai cassonetti,  per un nuovo florido mercato che, al termine, inonda il selciato, le aiuole    di rifiuti dei rifiuti.

La esortazione “aiutaci a tenere Napoli pulita”  è oscenamente dissacrata con il prelievo di quel che serve lasciando, poi, in strada,   il resto del rifiuto alla portata di un altro riciclatore.

L’altro giorno ho visto una anziana,  ricurva sul contenitore di una farmacia, svuotarlo direttamente sul marciapiede e, alle rimostranze di un passante,  tuonare maledizioni come un autentico  personaggio dei Miserabili; gli zingari, poi,  sono abilissimi nel saltare direttamente nel cassonetto,  usato come bancomat del rifiuto  istantaneo.

É nella logica del profitto, dell’economia e del mercato a tutti i costi, che si trasformano le persone con le loro potenzialità: da soggetti ad oggetti geneticamente modificati. Imprigionati nella ingiustizia sociale e nell’assenza di democrazia partecipativa. Imprigionamento che genera il  senso di perdita e la rinuncia all’autostima e che può portare a gesti estremi. Rendendo  finanche incapaci  di ri-pensare l’approdo  ad un nuovo possibile;

Un autentico disastro dove non vi è nulla  da negoziare. Dove non c’è una partita da giocare  attraverso una  cultura  di liberazione dagli orizzonti  di un  sistema  economico;  più che mai proteso a  proteggere  se stesso.

Se la politica è uno scambio -o almeno risposte possibili allo scambio di energie-  credo che la politica delle istituzioni vada modificata,  vada impastata di partecipazione autentica,  vada vivificata  degli entusiasmi,  vada lievitata dal fare creativo.

Metafisica? Sì! Come tutto quello che si respira da queste parti tra teatri e rovine, tra attese e delusioni, tra speranze e rassegnazioni,  tra la  morte e la sua costante rappresentazione.

Il “mondo Napoli” –che ,poi, è il mondo di ogni città- deve parlare e confrontarsi; ascoltare e programmare,  deve essere presente nelle piazze,  deve immaginare il mutamento dei rapporti sociali,  deve agitarsi in una  rivoluzione culturale.Responsabilmente  coniugando lavoro, qualificazione, progetti, economia, artigianato creativo.

Facendo, dei rifiuti,  l’oro di Napoli con una capillare e gestita raccolta per il mezzo di figure professionali  che garantiscano vigilanza sul territorio ed un riciclo creativo  “made in naples”.

Contando, per tanto,  sulle competenze delle eccellenze nazionali  nel campo delle arti,  della moda e delle scienze.

E non si può fare rivoluzione e  stare nel palazzo: fuori c’è il sole.

 

TORNA

 

 

un lunedì dell'anno 2017

 

Le interminabili attese di un bus, di un  treno, della metro: spezzoni di viaggi che ti fanno andare e poi tornare. Stremata al pensiero del giorno dopo uguale (speriamo), perché la fine del viaggio sarebbe un altro itinerario.

La sorpresa di un essere umano, un giovane uomo, dottorando, con il quale scambi un vero discorso in attesa del n. 8 che ti porta alla stazione. Ti parla senza intrusioni, ti segue sul bus, un cenno di intesa per un posto libero che ti indica  e ti  accompagna,  per un breve  tratto,  alla stazione. Ddelicatezza non formale, non scontata: grazie! 

Poi, l’attesa di travestirsi per il rituale accesso alla rianimazione; dove esseri umani brancolano nel buio della loro fisicità deturpata, collettivamente, all’unisono: un unico corpo, battente,  martoriato.

Nel  ritardo di indossare mascherina, camice, guanti e sovrascarpe avverto lo smarrimento nei tuoi occhi: “perché non c’è?  dov’è ?”.  Così esprimi  quel momento vitale che ti collega all’esterno, alla trepidazione, al ritorno.

Mi commuove la tua fragilità rocciosa e friabile. Le tue ferite somigliano ad uno scudo dismesso dopo la battaglia. Mani pietose ne  intrecciano la trama di ferro lacerata dal fendente.

Che  dire di chi ti rinnova ogni giorno la presenza e ti accompagna, ti sollecita, ti spinge ad informarla domani e, poi,  domani. E ti chiede: “e tu come stai?”. 

 

TORNA

 

 

ultimo aggiornamento/pubblicazione  10 gennaio 2019