articoli e altri scritti |
alcuni articoli e scritti su periodici e web dal 2005
(rintracciati, senza cronologia)
(Attese.
Sfrangiate nelle cronache che raccontano corruzioni. Nei talk show dai titoli accattivanti dove anche la speranza affonda in assuefazione del linguaggio. Blindato da opportunismo.
Una voce, tra teatro e vita, che abbraccia simbolicamente tutti quelli che avrebbero qualcosa da dire. Ma, che sono costretti a rinunciarvi.)
La giustizia mi deve una spiegazione.
Deve spiegarmi perché applica un salvacondotto preventivo. Una assoluzione. Occultando il peccato. Con la complicità di chi fa da palo sul luogo del crimine. O di chi applica il disservizio per altre cause. Una sorta di cura omeopatica allo sbando della giustizia, per modificarne le regole ? Per zittire i dissenzienti? Per azzoppare i dissidenti? Per creare i disordini che servono ai trafficanti? Per continuare a spacciare le loro regole e i loro intrighi?
Questi interrogativi si leggono ogni giorno, dietro le notizie. Le risposte sono devastanti, per chi sa leggere.
Ho l’immagine logorata. Il mio fisico si logora. Gli attacchi di panico sono ravvicinati.
Minati i miei elaborati di sempre: “la giustizia è lenta ma ci arriva”. Sono sconfessati dalla giustizia che guarda in alto o in basso. In alto, con riverenza. In basso, per fingere di non guardare in faccia nessuno. Infatti, guarda la nuca dei poveri cristi; nell’atto di rubare una gallina.
Sono per strada. Senza casa. Poco fa, due avvocati, un procuratore speciale, quattro agenti di polizia in turno, tre ufficiali giudiziari e, ancora, un fabbro, un medico, quattro paramedici – con autoambulanza –, hanno curato ed assistito al nostro allontanamento.
Quante gente! Tutto mi è apparso come una missione militare.
In verità, non mi sono difesa come potevo. Come dovevo. Ho la scusa di essere stata otto mesi invalida. Rottura dell’ischio pubico e dell’omero. Per una rapina.
Siamo andati via con una piccola borsa. Un ricambio di biancheria. E le medicine.
Lui si è persino inginocchiato. Si è umiliato. Per avere sei giorni di differimento. È malato. Loro lo sanno. Ma hanno preferito sigillare il suo studio. Non potevano. Ma lo hanno fatto.
Il giudice ha letto poco i documenti. O, ha voluto leggerli male. L’ho compreso.
Hanno determinato una situazione che rende difficile, impossibile, portare a termine la trattativa. Senza casa. Senza studio. Senza denaro.
Sarei dovuta andare a verificare un incontro pacificatore. Così ne sono impedita. Lo sanno.
Ma, a pensarci, non c’era nulla da pacificare. In effetti l’intenzione era di ottenere l’archiviazione. E, allora, ritirare, annullare ogni sentiero di pelosa magnanimità.
Così è stato.
L’archiviazione? Non ci sono reati. La parte offesa, cioè io, ha dato origine al contenzioso! Come dire a una donna violentata: “È colpa tua!” . Perché porta la minigonna, o è truccata, o è rincasata tardi, o non ha preso un taxi, o perché non ha, almeno, un cavaliere. Perché non ha nessuno che la difenda. Che alzi la voce.
Forse, al massimo, qualcuno le dirà: “Lei ha passato un guaio!”. Senza il rinvio a giudizio del reo. Bensì, una condanna ad una disperazione senza fine.
Per la mia vicenda io ho ascoltato dirmi: “Lei ha passato un guaio!”.
Mi chiedo: le persone che alzano la voce è perché hanno il potere di farlo? Il potere morale di esigere un comportamento adeguato? O, piuttosto, la capacità di far valere fatti sottostanti? Conoscenze sottili di colpe o di comportamenti per i quali l’altro non può andare fiero?
Quando è cominciato tutto? Me lo chiedo continuamente.
Una distrazione; certamente. Una lettura superficiale. Una motivazione più che preventiva. Una bestialità allo stato brado. Perché i fatti sono attuali, attualissimi, documentati e sacramentati.
Il punto di domanda doveva essere: perché fate false attestazioni negli atti? Perché su queste false attestazioni state devastando la vita di una persona? Perché continuate a praticare la malagiustizia come una cura per le vostre malattie?
Il mio avversario continua a offendere.
Usa un duplice binario. Una doppia strategia. Studiata a tavolino nei minimi dettagli.
Un linguaggio, quello ufficiale, rivolto ai magistrati. logorroico, capzioso, occhialuto: esteso in centinaia di pagine. Un linguaggio di enormità giuridiche, capace di annullare i diritti. Non so quanto altro sussurrato.
E, poi, un fraseggio di offese personali, di calunnie.
In una contestualità che dovrebbe lasciare perplessi, attoniti , sbalorditi.
Dire che Dante non sia stato un poeta, che Kant non sia stato un filosofo, che Hitler non abbia sterminato gli ebrei e che tu sei un’assassina o quantomeno una pazza. Ed essere creduto. E vaneggiare che il codice di procedura civile si può applicare; ma, anche, non applicare. Che la deontologia professionale si può applicare; ma, anche, non applicare. Tutto, ancor peggio, disattendere, o completamente ignorare.
Con l’esercizio di un potere sleale, assoluto, occultato.
La pulizia della ferita era sua. Come, sua, la necessità di nutrirci. Allora, cercava di stupirmi. Un piatto semplice che diventava una creazione.
Mi lasciava sola, per ore e ore. Per distruggere al cavalletto le sue ansie. Mai ammesse. Lo so.
Le persone nel palazzo diventarono invisibili. Mentre ero seduta in poltrona. Per mesi. Ma non furono invisibili le fogne scoperte. Da dove, al buio, ma anche di giorno, uscivano fetori e topi enormi.
Non ho una sigaretta. E non abbiamo una lira. Né per comprarle, né per andare da qualche parte a dormire. Non abbiamo nulla. Se non due mutande, spazzolini, lamette, schiuma da barba.
Ho sempre avuto difficoltà ad organizzarmi. Ora ho la sensazione di essere come gli sfollati. O, peggio, come gli ebrei. Che, forse, speravano, veramente, di lavorare nei campi di lavoro. Non immaginavano le camere a gas.
Hanno atteso cinquant’anni per vedersi pagate le polizze vita. Recentemente. A forfait. Per una esistenza.
Imperi di sangue e lacrime e morti e coscienza sporca.
L’ufficiale giudiziario “ufficioso” -quello che controllava le operazioni, il buon esito dell’operazione sloggio- lo incontro nei luoghi della giustizia.
Mi offende riconoscendo le troppe anomalie: “Li avete denunciati? Dovete denunciarli! Non si effettua uno sfratto così! Io non lo avrei fatto!”.
Ma, non eri presente? Non hai sentito? Non hai visto? Non hai partecipato? Gli rispondo che la denuncia è stata archiviata.
Non gli parlo delle archiviazioni morali. Quelle che rendono gli uomini, i praticanti della giustizia, indegni di accostarsi al tempio.
“Conosco il gip. È una persona perbene. Andrò a rappresentare le tue ragioni, già evidenti nella opposizione. Ci andrò domani.”.
Già, domani! Poi, posdomani; poi, “Non ho avuto tempo. Sai? … ero impegnato in quel processo … Sai? … quello finito sui giornali.”.
Gli avvocati prendono prestigio dal prestigio criminale dei clienti.
Si pavoneggiano. Eccoli: il difensore del politico, quello del malaffare, quello dell’infedele della fedi, poco importa se delle chiese o delle istituzioni.
Serve servire il potere. Parteciparvi, esserci.
Dopo giorni di prudente fiducia mi informo: il procedimento è stato archiviato. Da tempo. Troppo tempo ormai. La giustizia si è avvalsa, stavolta velocemente, della facoltà di non rispondere.
Vaghiamo. Smarriti. Con la nostra borsettina con mutande e con quella con i farmaci salvavita. Ne prende tanti che sembra un lungo viaggio transoceanico.
“restare in mutande”. È stato, forse, coniato da chi viveva situazioni drogate da eventi. Eventi sceneggiati, nei minimi dettagli, da falsi registi, da falsi procuratori, da falsi giuristi.. Da falsari che usano la vita degli altri come merce di scambio.
Ci cerca con lo sguardo.
Forse ha seguito l’odore del nostro sconforto. L’odore frammisto della paura, del buio, dell’incognita.
Abbiamo deciso di andare in sala di attesa alla stazione. O in un ospedale. Sperando in un ricovero. O, almeno, in una lunga attesa al pronto soccorso. Così passa la notte.
Ci intercetta. Si avvicina: “Mi dispiace! Per quello che posso vi prego di accettare un mio personale, modesto, contributo.”.
Compro le medicine, due panini e caramelle.
Mastico fiele dalle nove di stamattina. Con la convinzione che si tratti di un incubo.
Mi illudo che sia la scena di quei films dove lo spettatore immagina l’assassino dietro una tenda. Pronto a ghermire il protagonista ignaro.
Entra. È buio. Le luci non si accendono. Improvvisa una esplosione di cori: “tanti auguri a te! tanti auguri a te!”. Con applausi e risate e l’apparizione di candele, piazzate su una torta panna e cioccolata.
Invece, l’incubo continua. Il buio è reale. Il silenzio è reale. L’assassino è all’agguato. Subdolo. Scortica la tua vita senza uccidere, fisicamente. Ci penserà qualcun altro. Ci penserà il caso o la sorte o la salute minata.
Serve tempo agli assassini. Il tempo che corrode. Che scava gallerie. Che indebolisce la speranza. Che porta l’oblio nelle coscienze sporche.
Quelle della parola riprogrammata all’infinito. Ritirata, abusata, concessa, rinnegata e poi, ancora, rinnegata. Poi, ancora, riformulata adescante, perversa. Pronta per un’altra strategia.
La mia parola è già sfigurata. Fuori dai canoni. Come quella dei predicatori a ruota libera. Che parlano del peccato, senza assoluzione. Della vergogna, senza rossori. Della pietà, senza sguardi. Dell’inferno, immaginato solo dai veri peccatori.
Il deserto. Ancora una volta. “Sì rimanete. Ma solo fino a dopodomani. Altri pagheranno di più, specie in prossimità del Natale”.
Ancora, per strada.
Metto da parte orgoglio e prudenza e affondo io stessa la lama mortale. Pochi giorni e, poi, l’ultimatum: “Andate via!”.
Ma non disturbiamo. Non mangiamo. Quasi non respiriamo e dormiamo nella poltrona del cane. Con gli effluvi che permangono, di notte.
“No, andate via!”.
Rileggo nella memoria le motivazioni di un’altra archiviazione: “… si applica la prescrizione essendo i fatti risalenti al 2003.”
Ma ci sono lavori in corso!
Ho rubato un vaffa a un cancelliere. Un ferma-immagine impresso nella mente.
Gli chiedo del procedimento. Di quando il pm potrebbe ricevermi.
Mi risponde di malavoglia. Ambiguo, stufato, concedente.
Mi allontano voltandogli le spalle. Un’ultima domanda. Mi giro e colgo un silenzioso vaffa. Il volto e le labbra, con un ghigno liberatorio, seguono le linee tracciate dalle braccia alzate. Che annaspano, disegnando il nulla.
Rifletto, collego, analizzo.
In seguito, per onestà di ragionamento, osservo, critico, separo i fatti. Un esercizio sterile. Perché mi trovo a combattere contro tante cellule che hanno un unico obbiettivo: corrodere le altre cellule sane.
Amplifico, allora, amplifico il ragionamento. Così mi rendo conto che è una scelta di campo nella giustizia, nell’ambiente, nella cultura, nella socialità.
Corrompere per dichiararsi salvatori e proporsi per cambiare qualcosa. Che si è contribuito a guastare. Sono le ultime scoperte della odiosa sopraffazione che usano manigoldi seriali.
Nonostante il freddo camminiamo, macinando chilometri.
Il vento sferzante ci toglie il respiro. I pochi spiccioli per il treno stasera. Forse possiamo passare per il supermercato a comprare le stelline. Il caldo di un tetto imprestato. Un miraggio.
È un piano terra, o meno. Senza aria. Umido. Fatiscente.
Siamo isolati perché il cellulare non ha campo. Tremo. Per un malore di notte. Per una emergenza. Per una risposta necessaria e obbligata. Che rimane, invece, muta.
Ho i piedi gonfi. Con un rossore strano come se li avessi esposti alle fiamme. Sì! Forse siamo all’inferno. Con la testa in giù e legati per i piedi.
La sera faccio manovre che spero mi rassicurino. Mi riposo in un luogo estraneo e forse minaccioso. Sedia ripiegata contro la porta. Bottigliette di vetro, d’intorno. Una pentola. Rituali che si frappongono tra me e l’ignoto possibile.
In un letto di consunzione. Dove bisbigliamo le impressioni della giornata. Fiducia e abbattimento. Lotta e torpore. Come su un ring. L’avversario è scorretto. La partita truccata.
Il progetto è subdolo. Ma, anche, raffinato. Ci vogliono menti diaboliche per maneggiare gli intrighi. Per alterare il senso delle parole. Per consolare i diffidenti.
A volte le parole scritte diventano un luogo fluido. E basta tirare lo sciacquone. E scivolano via. Lasciando il cesso pulito.
La chiamo lavanderia giudiziaria. È quella che usano, per riciclare la verità.
Abbiamo perso gli amici. Cerco, nella mia carne spirituale, il valore dell’amicizia. C’è qualcuno potrebbe dire di me che sono stata la sua mensa e il suo focolare? Ma non lo dice. Non lo dirà.
Di loro non potrò mai dire, come il profeta: “Se lui dovrà conoscere il riflusso della vostra marea, fate che ne conosca anche la piena.”.
Mi appresto ad andare, ancora sola, presso la cancelleria di un pm. Perché ancora sola?
Farti apparire come una pazza che cerca vendetta. Evidenziare il tuo isolamento.
La raffinatezza è gestire la verità da una sola parte. All’insaputa dell’altra. Nella piena consapevolezza. Non denunciabile come opinione.
Il pm mi dà conferme: “Ma lei con chi ce l’ha?”.
La mia fama mi ha preceduto. Non sono quella parte offesa che domanda alla giustizia di dare voce e imperio alle sue ragioni. Sono nella categoria dello scaduto. La categoria B. Come la stampigliatura sulle uova.
Sono una vittima. Non sono un criminale che procura prestigio. Sono un problema!
Ho compreso. C’è l’intenzione di far saltare tutto. Di piegarmi.
L’unico modo è togliermi gli strumenti di vita, di lavoro, di identificazione sociale. I progetti e la dignità.
Il tempo è il loro alleato più fidato. Sono già dieci anni. Di immondizia culturale.
Sul luogo del crimine arriva gente impreparata. Calpesta le prove. Manipola gli oggetti. Manda tutto, senza protezione, in archivi polverosi -dai quali rispuntano dopo anni, ormai logorati e inutilizzabili-. Non trova rigorose prove scientifiche. Perché non le cerca o non le vuole cercare.
Oppure, omette di usare la logica. Quella logica che, invece, permette alla nazione di essere ai primi posti nei sistemi corruttivi mondiali. In fondo il male è ovvio e banale. Sono raffinate le tecniche, per esercitarlo.
Ho scritto tutto. Ho contato sui fatti detti esplicitamente. Ho contato su quelli per cui ho pensato che venissero fatte le dovute ricerche.
Il rischio di perdere la saggezza, l’equilibrio, la dignità è sempre presente.
Non basta ricordare che non vanno a braccetto con l’ultima moda. Con il parrucchiere ( che non vedi da anni). Con l’immagine passata nel tritacarne. Perché ridi poco. Ti nutri male. Ti trucchi da clown con una matita presa sulle bancarelle. E indossi vestiti aggrinziti come te. Perchè non respiri da anni. E non sempre riesci a dire:”Sto bene, grazie. E tu?”
La condizione umana non deve essere misurata da qualcuno che mente.
Cerco di non fare una brutta fine. Quella che ti lascia in balia degli altri. Oggi sono ossessionata dalle piccole cose: non avere biancheria idonea, se sto male e mi portano in ospedale.
Quando ci siamo stati abbiamo risolto il problema del cibo. Lui mangiava il primo. Io, portavo via il secondo! Spartani! Come lo sono chi non ha paura di buttarsi dalla rupe.
Ricordo che la luce era fioca. Cercavo di leggere. Libri nei quali mi rifugiavo.
Un corridoio. Poi, la corsia. Poi, l’intervento. Poi, un ferro nel braccio.
“Sono fatta di pasta dura” mi dicevo “ho tutto il tempo che mi serve per pensare!”. Perdermi nelle fantasticherie. Svegliarmi dai sogni. Prima che si dileguassero al sole. Per conservarne gelosamente una piccola parte. Quella della solidarietà della compagnia, della vicinanza.
Tornata, mi aggrappavo alle pareti del corridoio, lungo e stretto.
Impaziente, mi addentravo alla ricerca dell’aroma. Dolorante per la frattura, barcollavo. Per fargli la sorpresa del caffè mattutino portato a letto. Mi sentivo un’anatra zoppa. Saltellante sulle zampe fiere, ancora utilizzabili.
Tutt’intorno vedo gente che sa.
È un sistema perverso. Copiato dal sistema più importante. Quello malavitoso. Che sopravvive sempre perché gli adepti veri sono nascosti. Agiscono in giro, nei posti più esclusivi. Dove si accordano con poche battute e con ritorni assicurati. “Che ti serve?”. Non è necessario chiederlo; è sotteso a ogni discorso.
Solo chi sta nella ragione deve pregare, umiliarsi, implorare: “Per favore.”.
Il prestigio criminale va protetto, garantito. Così il potere va mantenuto. Se tutti quelli che avanzano diritti venissero ascoltati - almeno ascoltati - non ci sarebbero privilegi da gestire. Case da comprare. Barche da regalare. Grandi marche da sfoggiare.
Solo umanità dolente, da difendere.
Allora, cadrebbero le cattedrali. Edificate da personaggi senza patria né onore. Con l’abilità di concederti il diritto di respirare. Aspettandosi sentiti ringraziamenti.
Ho visto l’indifferenza del boia che accompagna al patibolo: “La protesta è una eccezione che posso ignorare. Tu non sei nessuno. Non sei protetta.”
Sono calunniata. Ma, no! Diffamata. Il seguito? Nessuno, c’è esimente. Oppure il diffamatore non può essere giudicato. Perché sarebbe distolto dal suo lavoro.
Invece, invece sono condannata quando mi permetto di chiedere un risarcimento in civile
Dettato o copiato non si sa: Questo è il sistema. Con me.
Il meccanismo è semplice. Non ci vogliono trattati di filosofia dell’essere. Sono, semplicemente, lasciata sola. Mi viene in aiuto. la mia sfacciataggine a costringere a valutare le conseguenze di possibili eventi estremi.
Gli incubi serpeggiano negli avversari. In vista di conseguenze inesplorate. Ma, solo finchè non siano macinati chilometri di carte. Che li mettano al riparo di associazioni di pensiero e azioni.
Attendo. Mi costano le lunghe attese. Le finte sollecitudini. Il gioco presupposto. Le voci ricorrenti.
Mi lasciano senza viveri, senza risorse. Per piegarmi!
Scorticano la mia dignità. Lavandola, come inutili cellule morte.
Mi colpisce la semplicità con la quale si raccontano crimini che sanno di persecuzione. Come si racconta di una buona pizza, gustata la sera prima.
Siamo in balia dei capricci del destino.
Un colpo di tosse. E sangue. È sempre il corpo che lancia segnali. Una spia luminosa di rossori alla stregua di “violetta”. Sonora, come ai semafori per i non vedenti. Ricovero. Un galantuomo che dispone indagini, approfondimenti. I polmoni sono una cortina fumogena.
Il rossore dei nemici si concretizza in montagne di carta.
Sono più sola che mai.
Tra andirivieni e preoccupazioni pratiche: un pigiama al mio re nudo.
Questo rituale si impone ogni volta. A casa ammoniva, sempre: “Se dovessi morire, voglio essere nudo con un semplice sudario. Nel mio studio. Tra le mie opere.” La nudità è la sua beatitudine.
Vado in giro per corridoi.
Attese, attese, e poi, ancora attese.
La mia immagine è tinta di questa presenza forzata.
L’umiliazione delle attese è gestita e coltivata con arte sopraffina. È necessario farmi passare per una rompiscatole. L’effetto è devastante e si legge nelle parole mutate di chi si avvicina e commenta: “Vogliono guadagnare troppo” che diventano: “Ma tu non puoi alterare il senso di quello che ti ho detto. Mi hai fatto litigare e compromettere.“.
Nel dubbio di chi sia amico e chi nemico, diffido di tutti .
Sì! C’è intelligenza con il nemico. “Che aje avè”. E tutto si normalizza.
Debbo avere fiducia. Qualcuno leggerà le carte? Sommando due più due opererà una scelta matematica del quattro?
No! Non ho questa fiducia.
Il mio avversario è un artista. Un avvocato di “rispetto”. Ha sovvertito tutte le regole. Fornendo prestazioni di risultato e non di mezzi. Anzi, li ha usati entrambi. Come in un doppio a tennis.
Perché faccia sempre strike è un mistero. È una facoltà che gli si concede a piene mani. Con sublime disponibilità dei conviviali della giustizia.
Le paroline sussurrate danno l’impressione di levità, di leggerezza, di un piacere innocente. Un fare rimandato, una soluzione sempre possibile, una marachella da perdonare, Come se gli ebrei nelle camere a gas fossero stati bombardati dall’elio e tutti in coro levassero un canto infantile e scoordinato. Ma, non letale.
Le paroline!
”Non vogliono chiudere perché guadagnano.”. Chi? Come? Posso immaginare i ritorni di immagine. I petti infuori per le vittorie. La tutela di interessi. Ma altre dazioni? A chi sono destinate? In quale modo elargite? Chi ha il segreto di tutto?
Ci sentiamo braccati. Da bracconieri travestiti.
Minacce a ferragosto. Come già a pasqua, di giovedì santo. Senza ragione. Anzi, un unico motivo: creare un sentimento di precarietà, di impotenza, di ineluttabilità. Di provvisorietà vicina alla morte.
Non c’è alcuna ragione morale e neppure mercantile nel dire, il quindici agosto,: “Ve ne dovete andare! Di quello che ancora mi dovete non voglio niente!” Illogico. Strumentale. Pagato con altri favori?
Non c’è scampo. Neppure può sfuggire che manca l’elemento umano. Quando mandi in strada un ammalato appena dimesso dall’ospedale.
L’afa è insopportabile. Ci alleniamo come atleti che debbono superare il loro stesso record. Celebrato solo qualche minuto prima.
Vicende fuori dai processi. Quando è stata l’ultima volta che ho avuto un pensiero leggero, una distrazione? Godere di una passeggiata. Godere di un buon film. Visitare una mostra. Andare alla villa comunale.
I nostri passi consumano la strada. Qualche pensiero si trasforma in sillabe per haiku.
Una giornata di grigio e le guglie che si riflettono nei pantani. Un’ombra di colombo che sul selciato somiglia a un ratto. Ispirazioni fantastiche di una mente allenata al particolare. Una smorfia. Una distrazione. O un insulto.
Amici e potenziali amici intercettati dai nemici. Mi sento oppressa da qualcosa di più grande di me. Che esplora, controlla, intercetta, previene.
Non debbo perdere le speranze. Sono convinta che le dinamiche umane siano destinate a finire. Esaurirsi o fermarsi. Perché terminate dalle stesse motivazioni iniziali.
Poi, poi mi avvilisce l’idea che le società sopravvivono con gli intrighi messi in atto dagli umani.
Il tempo delle società è lo stesso tempo della giustizia? Sì! Combaciano perfettamente. In entrambi sopravvive il potere, non il dovere. I cambi di guardia sono stati infiniti. I voltafaccia certi e imprevedibili. Sull’una e l’altra sponda.
Mi reco dal giudice. Sono venuti gli avvocati. Scocciati, molto scocciati, di essersi scomodati per una insignificante parte lesa. Dicono in coro che le difese sono difese. In amore e in guerra tutto è lecito. Ma l’audacia delle menzogne accompagnata da infrazioni e omissioni di ogni genere? È nelle possibilità dei magistrati verificare?
Il provvedimento: una poesia. Incoerente e frivola. È vero che non sono mai stata pagata. Poi, il fulmine sulla strada di Damasco. Il ravvedimento: “Non fa niente!”
La società non funziona. La magistratura non scruta. Le lobbies vincono sempre. Comunque.
Mi sembra di aver avuto il foglio di via irrevocabile. Come un immigrato.
Capisco bene, ora, il meccanismo. Nel quale vengono stritolati quelli che perdono lavoro. I diseredati della società. Quelli che perdono le case. Con essa le proprie radici.
I momenti della vita non si ricordano senza gli odori delle cose che ti appartengono.
Mi sento violata come in uno stupro. Il pensiero che estranei annusino la mia vita mi opprime. Che aprano i miei cassetti. Che spiino i miei archivi.
Le mie carte, le mie memorie, le mie riflessioni e analisi sono tutte racchiuse in un ferro di cavallo. È questa la forma della casa scura e misteriosa. Ma, illuminata da me e dalle nostre operosità.
Hanno esplorato i miei sensi in quella casa. Anche le mie attese di altri luoghi programmati. Le rondini preparano nidi altrove, quando vanno incontro ad altre primavere.
Ora, la faccia imbecille di chi si accontenta di negarti qualcosa, con ottusa perseveranza, avvilisce la mia già precaria condizione fisica.
Nella italietta, che ci circonda, ci sono due binari. Non si incontrano, non dialogano, non si conoscono. Se sei in difficoltà perdi pezzetti di carne. Gli stolti, servi o padroni, sono pronti ad assaltare la tua integrità. Come cani che annusano ossa già spolpate.
Abbiamo necessità di mangiare. Sono giorni di crackers. Senza medicine.
Lo sanno! Lo sanno!
Mi angustiano le carte. Migliaia di carte. Sanno che non posso andare alla stazione. In un dormitorio. Da una conoscente. Senza lasciare le difese. Mi occorre un presidio. Una emergency da campo. Infastidisce la mia perseveranza in qualsiasi condizione, in ginocchio o in piedi, in vita o in morte.
La sala macelleria entra, allora, in funzione per vie traverse: “Se la cacciamo improvvisamente è costretta a lasciare il presidio, a mollare gli attrezzi; a perdere la bussola”. Ebbene, capita con cadenze regolari. La loro agenda elettronica funziona alla perfezione. I loro tanti presidi sono efficienti, scaltri organizzati. Lavorano e respirano come un unico polmone artificiale.
Incontro una cattedratica. Mi dice che lei lascerebbe tutto. Tutto uno schifo. Andrebbe via lontana. In pace. Non ho ben capito il luogo che mi indica. Non ho ben capito perché dovrei lasciar perdere. Non sono mica Spencer Grant di “Dean Koontz” ne “Il fiume nero dell’anima “? O, forse, sì! In questo caso chi è il mio Roy Miro?
Le mie emozioni hanno la meglio. Il mio coraggio si affievolisce. La mia pelle scorticata soffre. Cerco di capire. Scrivo di getto “le intercettazioni fantastiche”. Con messa a punto dei personaggi. Rigorosamente in ordine di entrata nei fili violati. Ne descrivo le caratteristiche e le peculiarità. Tutte, riconducibili a quell’esercizio del potere subdolo e intrecciato. Quello che si chiama traffico di influenza. Operazione sterile. Non sono pubblicabili!
Assemblo. Vaneggio, ma lucidamente. Perdo la bussola. Poi mi faccio coraggio. E cerco di navigare lungo costa.
Eppure il traffico c’è. Ne sento il frastuono. Clacksons, trombette, sonagli e varie. Ancora vaneggio.
Ho per caso ascoltato dire a un giudice: “È quella questione di cui si è parlato ieri, ricorda?”
Sono andata nelle fogne del civile? Forse, un giudice ha rinviato la lettura del dispositivo, fino al limite della decenza massima, all’arrivo del procuratore di controparte? Forse, si è spinto a non leggere il dispositivo? Lasciandolo a disposizione delle parti. E della mia indignazione.
Forse l’insulto alla giustizia, alla coerenza, alla disciplina , al rigore è potente?
Vivo momenti brutti, la sera. Quando appoggio la testa sul cuscino. Tra una specie di culletta. Fingo di dormire. Per non guardare due occhi nel buio. Sbarrati e smarriti. Come in uno specchio.
Fingo. Forse finge anche lui. Il nenniano di casa che ripete: “Solo chi non accetta di essere sconfitto, non è sconfitto!”.
Spera, sempre, nell’intimo, sulla ragione della verità. Belle parole che mi rianimano.
Ma, litighiamo con ferocia. Nelle nostre trame psicologiche. Nelle trame intrecciate della nostra vita. Nelle debolezze di chi è un ingrediente solo.
Chi “ascolta” può giocare. Inventarsi i nostri rapporti di forza e debolezza. Può manipolarli. Può usarli. Può gestirli.
Si possono minare le certezze e l’affidamento. Con le paure. Con le mancate sintonie. Con gli allarmi. Non uditi o sottovalutati. Le guerre si combattono, prima, nei pensieri. Il dissenso confonde la sagoma del nemico. E gli avversari lo sanno.
La lucidità è tutta da un lato. Vogliono vincere. Con o senza gli aiutini dei tribù-nalini. Minano le certezze. Mascherano i propositi. Così si mostrano disponibili a trattative, per poi negare, negare, negare.
In guerra si lascia il nemico senza viveri. Per sfiancarlo e vincerlo. E, poi, saccheggiarlo.
In pace, si può usare la stessa tecnica?
Sì! Lo sanno i criminali economici. Lo sanno quelli che approfittano dei fuochi e fiamme. Del disagio sociale inoculato nelle fibre della gente. Nelle famiglie. Nei luoghi di lavoro. Nelle fabbriche come nelle professioni. Finanche nelle arti. Per agire da sciacalli. Per scrollarsi i doveri. Per offendere la tua vita. Per escluderti da ogni elenco di diritti.
Sì! Dall’elenco dei bisogni. Non dico di quello del superfluo. Dove non possono che accogliere gli amici, gli amici degli amici e quelli meritevoli. Perché servizievoli e piegati agli interessi. E muti.
Come in un loculo: “per sè e per i suoi”.
Gli altri, allo scoperto. E la loro vita si trasmuta nella iniziativa solitaria del pazzo che parla alla luna.
La mia angoscia ultima. Non essere adeguata ad eventi imprevedibili. Soffro di attacchi di panico. Anche renali. Ho difficoltà respiratorie. Cosa mi succederà? Se mi dovessi sentire male, improvvisamente. Comincio ad aver paura degli eventi. Delle imprevedibilità dei tramonti.
Invento un’isola di salvataggio. Un paio di babbucce per girare nei corridoi. Una casacca per camicia. Una vestaglia per proteggermi dal freddo. Stipo tutto nel cellophane. Per trovarlo pulito e pronto all’uso.
Mi arrovello nelle possibilità. Alla fine, preferisco essere una sopravvissuta. Una che ha lottato, ha amato, ha sofferto. Una vita tra tante. Una vita che non potrà mai essere celebrata, raccontata, vissuta. Se non da me.
Le istituzioni non rispondono: Ma, i tribù-nalini peggio. Questi si avvalgono della facoltà di non rispondere. Intanto, le attese ti consumano presente e avvenire.
Questa mattina in una cancelleria. Con spirito di fiducia. Mi voglio informare sull’esito di una causa. Affidata a un magistrato, donna. Conosciuta per serietà e preparazione. Anche cortesia. Il che non guasta.
Ma è una sentenza o un responso? Come quello che ti danno in un anonimo laboratorio. Che attesta la presenza di cellule malate. Io, so chi è malato. Ma sono fiduciosa. Mi ostino a chiamarla sentenza. Insomma, quella che viene deliberata tra le parti. Con spirito di equidistanza.
Mi ripasso mentalmente le difese. Sì! Ho scritto che la competenza per materia è una baggianata coltivata come gli ogm. Sì! Ho depositato le dichiarazioni contrarie dei medesimi funzionari di controparte. Sì! Ho rilevato che si è formato il giudicato esterno (è un dato dal potere normativo, debbo essere fiduciosa!). Sì! Ho rappresentato che un giudice del lavoro ha fatto una ordinanza chiedendosi quale fosse l’interesse della mia controparte a sollevare una eccezione inesistente. Sì! Sono tranquilla. O, no? Il panico mi assale. Vedo la giustizia come l’infermiera che distrattamente ti passa il responso: “C’è un cancro.”.
Mi dice di averla depositata stamattina. Le chiedo l’esito. La speranza sembra timidezza.
Ho perso la causa. Maschero il mio disappunto. Le chiedo se abbia letto la documentazione che ho versato agli atti. Le dichiarazioni dei vertici della società. Se abbia letto l’ordinanza del giudice del lavoro. Se abbia letto le mie osservazioni in diritto processuale e sostanziale.
Mi concede l’onore delle armi? Non lo so.
Mi dice che ha “curato” le sue perplessità chiedendo ad altri colleghi che avevano trattato le altre cause. Poi, seguito le loro decisioni.
Per non sbagliare, o per non pensare?
Nonostante sia aprile continua a piovere. Le mie scarpe estive sono crollate. Come me.
Chiamo aiuto. Non abbiamo ricambi. Non abbiamo scarpe adeguate ai continui temporali. I piedi sono gonfi e arrossati.
Li curo con ghiaccio. Finchè posso abusare del bar all’angolo. Poi, niente. Aspetto paziente che passi.
In farmacia riesco a rimediare una fascia elastica. A prezzo stracciato. Sembra usata. Ma mi adeguo. In tempesta basta non essere sotto un albero. Almeno spero.
Tutto è chiaro a tutti. Ma le voci di dissenso tacciono. Nel crepuscolo del proprio utile: ”tengo famiglia, tengo potere, tengo agli amici e agli amici degli amici”. Eppure ho sollecitato attenzione. Ho raccontato senza pudori di non potermi permettere quasi nulla. Di essere, specie, di notte, oppressa da luoghi insicuri. Voci e passaggi e urla e deliri. Di chi non conosco. Nel chiuso di una stanza. Come agli arresti domiciliari.
Sembra che tutte le chiavi siano un passepartout.
Qualcuno mi dice: “ ... con quel ciuffo bianco sembra più giovane ... sorrida! ...”.
Eh, sì. Le regole del gioco: sorridere. Si sorride per mostrare grinta e sicurezza e glamour. Quando si deve spiegare al mondo di non avere nulla da temere. Di essere certi e devoti alla causa. Come in politica.
In questa partita sono, forse, rassicurata da eventi favorevoli? Oppure a sorridere sono solo avversari nelle loro fortezze inespugnabili?
Racconto. Mi indigno. Vado per corridoi maleodoranti.
Ora che sono in atto prescrizioni le facce sono indifferenti. Le attese sono più lunghe.
Le concessioni sono subdole. Come è subdola la pietà.
Una lunga catena di dinieghi, disprezzi, profitti materiali e psicologici. Il deserto che non vuoi vedere. Quello morale. Quello delle finzioni.
E, peggio, il deserto di quel territorio emotivo riservato e privato. Quello degli affetti, che trovi minato.
Capace da solo di toglierti vigore.
Quello che ti fa veramente a pezzi. Peggio di una mannaia.
Mascherato dalla ipocrisia della impossibilità. Dalla ipocrisia per altri salvacondotti. Mercificati e spacciati per solenni sacrifici.
Rileggo, spesso , la numerazione delle “vittorie” riportate dal mio contraddittore. Infantilismo dialettico di chi mostra i bei voti riportati Che ha aggiornato ogni procedimento come in un fantomatico pallottoliere.
Mi scuote. Mi scoraggia. Che la giustizia mastichi gomme americane. Che tolleri dichiarazioni false in tutti gli atti giudiziari. Che tolleri sentenze copia-incolla. Che tolleri che organismi di controllo si astengano da qualsivoglia riscontro che abbia una logica di verità. Che tolleri che i presidi di legalità servano ad afferrare saldamente potere e controlli. Devianti e subdoli. Con troppe macchie. Che la giustizia, per i poveri cristi, si avvalga della facoltà di non rispondere. Di attese.
Sono ammutolita e dolente. Tutte le dinamiche mi sono note. Quelle sociali. Quelle culturali. Quelle familiari. Perfino quelle del potere. Che si esercita ovunque, a man bassa. E fingo di non vedere i tradimenti.
Sono le indifferenze che mi ghiacciano e mi straziano l’anima.
È tutto? No!
Il più si tace. Sempre.
… tutto a posto per quel piacere che ti ho fatto? …
… ascolta, fammi un piacere … controlla quella situazione e fammi il piacere di toglierla di mezzo …
… per piacere vedi di risolvermi quel piccolo fastidio che ho avuto …
… te ne ho parlato l’ultima volta … quando ti ho ringraziato per quel piacere di tuo cugino …
… per quanto riguarda quell’inconveniente di cui mi hai accennato sarà per me un vero piacere risolverlo …
… per piacere fammi il piacere di parlare con il cognato di tuo zio perché mi deve fare un piacere …
… siccome già me ne ha fatto uno di piacere è meglio che ci parli tu, per quest’altro piacere …
… salve. sono il figlio di …. ah, suo padre mi ha fatto un grande piacere, sono debitore …
… ah, non si preoccupi, mi ha mandato da lei giusto per un piacere che solo lei gli può fare.
scusa, ti chiamo per un piacere, puoi parlare con … no? allora fammi il piacere tu di trovarmi qualcuno al quale è obbligato per un piacere ricevuto.
…scusa puoi intervenire per quel piacere che sai? tranquillo, sai che sto cercando la persona giusta per quel grosso piacere e così gli parlerò anche del tuo piacere appena, però, avrà risolto il mio.
… che piacere incontrarti di persona mio genero mi ha appena chiamato per ringraziarti del piacere.
… sì, sì, ha ricevuto da me molti piaceri, ma li ho fatti con immenso piacere.
… scusa del ritardo per quel piacere, ma sto cercando la persona giusta che possa ricambiare al cugino di mio nonno per intrecci parentali con un mio trisavolo che gli deve un lontano piacere…
piacere di avervi conosciuto!
ma fateci il piacere!
La cultura della mediazione è, dovrebbe essere, un principio sano; un principio di solidarietà, un misticismo di rapporti, una valutazione generosa del “mio giuridico” riconosciuto alla dimensione sociale e individuale altrui
Anche i consideranda (se ne contano trenta) contenuti nella Direttiva n. 2008/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008 sono ispirati a principi di solidarietà, reciprocità, comunicazione , amicizia.
La reintroduzione della mediazione sembrerebbe, dunque, ispirata non solo alla Convenzione sui diritti umani (che all’art. 6 invita a garantire tempi ragionevoli per la risoluzione delle controversie al fine di scongiurare i ricorsi alla Suprema Corte) ma, anche, alla introduzione di una cultura della tolleranza , alla relazione amichevole, fiduciosa, socialmente sostenibile.
A tali principi si richiamano le tradizioni dei paesi europei (che hanno la cultura della mediazione nel DNA) mentre l’Italia è posizionata agli ultimi posti nelle classifiche di efficienza del sistema giustizia avanti solo a Turchia e Ucraina.
Nei paesi europei dove la mediazione è di casa non per imposizione legislativa - ma per un ideale corrispondente all’idea di dignità umana e la reale cultura comunicativa messa a disposizione dalle strutture pubbliche sul territorio- appare operativa senza intoppi e resistenze.
In Francia, dove già esistevano strutture di prossimità, è stata introdotta una ordinanza applicativa per la “semplificazione e miglioramento della qualità del diritto” in nome della fraternitè; un fondamentale principio di prossimità territoriale specie nelle risoluzioni di conflitti familiari e minorili.
La mediazione, per esprimere adeguatamente la cultura che è nelle intenzioni, dovrebbe recuperare una reciprocità reale, estesa a tutte le materie; senza il distinguo che caratterizza la esenzione per lobby potenti che operano con predominanza imponendo o privilegiando esclusioni.
E’ impressione che si agiti un conflitto, nelle diverse anime del campo Giustizia, dove le lobby continuano a dettare le agende costringendo a ripiegamenti, ripensamenti e, forse emendamenti.
A provvedimenti inadeguati anche in ordine alla necessaria indipendenza del mediatore che non viene sufficientemente esaltata; poiché si ritiene necessaria e inclusiva la sola nozione di imparzialità.
Non a caso i concetti di imparzialità e indipendenza della Magistratura risultano differenziati ed evidenziati, singolarmente e adeguatamente, nella giurisprudenza della Corte che “richiede che la funzione del giudicare sia assegnata ad un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia del decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio, in occasioni di funzioni decisorie che, egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza”; richiamandosi ai principi della uguaglianza dei cittadini, della pari loro dignità e libertà di fronte alla legge; secondo i principi fondamentali che si rinvengono nei primi incisivi capitoli della Carta.
Il mondo dell’avvocatura ha individuato nella mediazione obbligatoria un onere supplementare a carico dei cittadini; senza contropartite adeguate in tema di efficienza, rapidità, certezza del diritto.
E’ di queste ore la dichiarazione del Presidente del Senato, Pietro Grasso, che ha rimesso in dibattito il tema della Giustizia civile: “Come presidente del Senato intendo utilizzare a pieno tutti gli strumenti a mia disposizione perché ai temi della giustizia si dedichi un dibattito parlamentare costruttivo, il più completo possibile, e che il confronto possa offrire al Paese regole e procedure più moderne ed adeguate ai bisogni della nostra società”; rammentando di non aver perso di vista “gli obiettivi della sua funzione precedente: legalità, giustizia e verità”.
Anche la mediazione, allora, va ripensata nell’ottica della reale e concreta incisività fuori dalle logiche che finora ne hanno inquinato il dibattito; con decisioni che intendono adoperare una chirurgia estetica per i “compiti europei” ponendo rimedio inadeguato a bruttezze divenute, volontariamente o involontariamente, endemiche
Una vera cultura della mediazione si dovrebbe venire ad esprimere con accessi completamente gratuiti e con finalità tese a pervenire al concreto risultato di definire il contenzioso con una conciliazione.
La regolamentazione attuativa dovrebbe, peraltro, prevedere sanzioni per coloro che, invitati alla mediazione se ne astengano immotivatamente; così perseguendo lo scopo di allungare i tempi della domanda di Giustizia coltivando volontariamente la conflittualità ; senza conseguenze, se non eventualmente future nella valutazione del comportamento e -nel regime delle spese di soccombenza-.
Nel sistema giudiziario francese vigono le “astraintes” –sanzioni pesantemente punitive- e, comunque, nel sistema processuale italiano, è stata introdotta una simil norma con l’art. 614 bis cpc che consente al Giudice di applicare misure coercitive indirette.
Potrebbero essere utili per alimentare la cultura del confronto e allacciare un dialogo costruttivo?
Il male diventa sempre più banale, inutile, imprevedibile.
Si traduce in fenomeni di violenza generalizzata. Violenza esercitata nei più svariati contesti sociali e spesso, sempre più spesso, svincolato da patologie psichiche.
In effetti risulta che solo il cinque per cento delle persone aggressive e violente - che traducono le loro condotte in reati – venga, poi, dichiarata incapace di intendere e di volere.
Si agisce, dunque, in piena consapevolezza e il male che pervade è quello di agire, sentendosene legittimati, in difesa della cosiddetta normalità.
Quella normalità che la società è disposta ad attribuire; fondandola sulle certezze: famiglia, lavoro, amici , consenso, relazioni.
Normalità di persone disposte ad usare la più bieca efferatezza.
Senza controllo, senza pietà, senza sentire la voce della coscienza; poiché flebile, afona. Impercettibile nel fragore di quello che si pretende di dover difendere, ad ogni costo.
Nel territorio più segreto e insidioso, esplorato dalla psichiatria, diventa difesa ad oltranza della propria “immagine fantasticata”; che prende il sopravvento sulla realtà .
Gli ultimi fatti di cronaca lasciano annichiliti. Il delitto di Marilia, la giovane brasiliana uccisa nel caldo torrido di agosto da colui del quale si fidava: il datore di lavoro e amante e futuro padre del figlio che aveva in grembo.
Dopo il delitto pare sia andato ad una lezione di volo. Non dopo essersi accuratamente lavato, semmai profumato di fresco.
Vorrei soffermarmi sull’aspetto psicologico del crimine, del quale sembra si siano perse le tracce. Quell’aspetto che, come un marchio, accompagnerà inesorabilmente per il resto della vita; indipendentemente dalla scoperta della responsabilità e dalla condanna della società.
Emile Zola l’ha descritta egregiamente in “Teresa Raquin”.
Il romanzo, all’epoca, suscitò scalpore per la crudezza nella descrizione dei temperamenti dei due amanti Lorenzo e Teresa che, in preda ai rimorsi, dopo aver annegato Camillo - il marito di Teresa - si sbranano, dilaniandosi l’anima e accusandosi reciprocamente. Con la stessa ferocia cieca della passione provata. Fino a soccombere alla loro colpa intima e segreta.
Zola esplorò il senso di colpa nei dettagli di un divenire inesorabile che cancellava la passione e, con essa, le motivazioni apparenti ed emotive del delitto; risolvendola in pura crudeltà.
Zola, nella prefazione, preavverte i lettori: “ ho semplicemente fatto su due corpi vivi il lavoro che i chirurghi fanno sui cadaveri”.
Prima di commettere un delitto bisognerebbe conoscere e misurare tutti i passi che portano all’inferno. Passare dallo psicologo o, almeno, per la biblioteca dove trovare argomenti di riflessione su quello che si sta per scatenare, nella vita degli altri ma anche in se stessi.
Ma ogni delitto è più forte della ragione.
Sono al banco di un bar, nonché rinomata pasticceria.
Dividiamo il caffè, uno per due. Una abitudine e insieme una limitazione. È facile diventare caffeinomani.
Il caffè costa 90 centesimi e, come è usuale, la monetina di 10 centesimi è posata sul banco, insieme allo scontrino.
Due i barman. Uno serve al banco. L’altro prepara il caffè, dopo che ha ricevuto l’ ”ordine di esecuzione” dal primo che, a sua volta, ha raccolto l’ordinazione.
Troppa burocrazia anche intorno ad un caffè.
Qui, non sempre è la patria del buon caffè. Nonostante le dissertazioni teatrali di De Filippo che parlava della cultura della tostatura necessariamente a “manto di monaco”.
Nel caso, questo particolare non si nota. Ma, questa è un’altra storia che non interessa questa breve cronaca.
Gli esecutori del rituale sono in divisa: sembrano ufficiali con giacca coreana.
Nel pieno dell’operazione entra un signore che chiede, per cortesia, un bicchiere d’acqua. Il nostro “ufficiale” gli risponde che l’acqua non è gratis. “Si paga!”
Preso alla sprovvista l’avventore, intimidito, sconcertato, umiliato, chiede quanto costa. “Dieci centesimi. Vada alla cassa!”!
Cerco i dieci centesimi ma, perdo tempo. Avrei voglia di recuperare la moneta di mancia e andare immediatamente alla cassa a pagare. Sarei stata curiosa di leggere sullo scontrino il motivo della erogazione e, anche, guardare l’espressione del barman; che, nel frattempo, cercava cenni di approvazione al suo operato senza trovare consenso.
E il signore si allontana, anzi si dilegua; dicendo di essere dispiaciuto, ma di non avere, in quel momento, spiccioli.
Si allontana. Nel caldo torrido di agosto.
Napoli non è il posto del caffè pagato? Ma anche il posto dell’acqua da pagare?
La proverbiale generosità del popolo ha ceduto il posto alla avarizia, al lucro selvaggio, alla prevaricazione di un piccolo potere esercitato con l’occhio alla vittima di turno.
Ci sono poche fontanelle di acqua potabile, chiamate beverini. sparse per la città.
E, per buona fortuna, pare rientrato il progetto di applicare gettoniere a pagamento alle fontanelle pubbliche, installando “fontanelli”.
E l’acqua è potabile? Ma chi garantisce?
La materia è regolamentata dal decreto legislativo n. 31 del 2001 (naturalmente entrato in vigore solo dal 2003 in recepimento della direttiva europea 98/83/CE) che detta i parametri relativi alla qualità dell’aennali per adeguarvisi.
Ma chicqua destinata al consumo umano e anche deroghe quinqu garantisce tra nitriti, nitrati, arsenico e uranio la qualità delle acque? Che, peraltro, dovrebbero contenere una minima concentrazione di microrganismi e parassiti, con tollerabilità secondo i parametri microbiologici, chimici e di radioattività?
Certo non basta la buona volontà espressa nella ultima delibera che dovrebbe imporre (il condizionale è d’obbligo), agli amministratori di condomini la verifica, a pagamento, della potabilità delle acque per uso domestico.
Cinque i punti stabiliti dalla delibera del Comune di Napoli. La prima voce sancisce che l’acqua è un “bene comune”, quindi “non assoggettabile a meccanismi di mercato”. Inoltre la gestione del “servizio idrico” deve essere di proprietà pubblica e improntato a “criteri di equità, solidarietà e rispetto degli equilibri ecologici” (per la lettura completa: http://www.fanpage.it/acqua-bene-comune-per-luigi-de-magistris-presentata-la-nuova-delibera-del-comune-di-napoli/#ixzz2gHEuUvs9).
Nel frattempo fioccano sanzioni dall’Europa.
Abbiamo l’acqua alla gola, ancora una volta.
La parola dovrebbe avere un peso, un volume, una qualità, una eco, un limite. Forse, anche, un arcobaleno di colori, una speranza, un buon gusto, e, finanche, un poco di poesia.
La politica è diventata, da tempo, il luogo dove, per persuadere e ottenere consensi, non è necessario presentarsi, con prove di quanto si afferma, ma con tecniche convincenti. Un largo sorriso e una ripetizione di frasi ad effetto per persuadere la platea che ascolta la verità. Ma è una parvenza di vero.
I politici che hanno l’ossessione di rimanere a galla e aggrappati alla scena perseguono un solo interesse. Confondere l’elettorato. Così usano tecniche di persuasione fatte di parole abusate, ovvero di bugie istantanee come una foto. Che la foto sia sgranata o a fuoco poco importa.
Poi, “facimmo ammuina”; per il gradimento degli ascoltatori-elettori.
Molti si affidano a guru della comunicazione.
Con un corso intensivo di poche ore insegnano a spararla sempre più grossa, con indifferenza. Si badi: accompagnando la parola marcita a sorrisi stampati e radiosi di condiscendenza o a gesticolazioni da “comica finale”.
Lo spettacolo si rappresenta da così tanto che sembra sia subentrata una assuefazione bulimica, un consumismo di notizie che brucia altre percezioni.
Il maestro di queste tecniche di comunicazione è stato Silvio Berlusconi.
Possiamo immaginare, sin da ora, un nostro prossimo futuro intriso di astute conferenze stampa direttamente dai Servizi Sociali che si contenderanno l’onore di ospitarlo.
Il reframing possiamo immaginarlo: barzellette (è bravo!) e doppi sensi conditi da autocelebrazioni e, anche, cornicelle con le mani.
Si troverà il tempo per l’indignazione che, il più delle volte, solo a parole è serpeggiato negli spettatori passivi di questo ibrido spettacolo a metà tra cabaret e dramma?
Ci vuole la parola, quella che dovrebbe avere un peso, un volume, una qualità, una eco, un limite, un arcobaleno di colori, una speranza, un buon gusto e, finanche, un poco di poesia. Una visione impegnata di futuro.
L’altro giorno ho avuto occasione di salutare un anziano avvocato che conosco da tempo. Gli parlavo della mia iniziativa per la costituzione di un fondo di solidarietà per l’adozione a distanza di bambine svantaggiate. Mi ascoltava compreso, rapito, partecipe. Improvvisamente, senza alcuna sollecitazione, ha iniziato a parlarmi della sua vita, della perdita della compagna, di quanto avesse avuto modo di riflettere sul suo essere stato tutta la vita un maschilista convinto.
Una intensità di sentire, una visione del mondo e del privato ripensata e riguadagnata; in un ricordo rispettoso, generoso, amoroso.
Cito questo episodio perché il maschilismo viene additato, impropriamente, come una delle cause culturali che, concependo la donna come possesso, ne contrae la libertà e l’autodeterminazione; contribuendo a disparità negli equilibri precari della famiglia.
La famiglia, con le sue “regole” proteggeva, al suo stesso interno, la identità, il disagio, la precarietà, la percezione della mancanza di diritti e di soluzioni.
E in questo proteggere occultava anche il sopruso, l’abuso.
E con il sopruso e l’abuso, l’ aggressività di prossimità; pericolosa e incontrollabile, che si riversa su compagni di vita nei cui occhi non vediamo più amore, apprezzamento, unicità, stabilità.
Si continua ad assimilare questo delitto a un malinteso senso di amore, possesso e gelosia; mentre la causa sociale è da ricercarsi nella precarietà esposta della vita, del lavoro insicuro e della disoccupazione imperante, dei rapporti sociali che indeboliscono e tracimano nella prepotenza di proprietà.
Così, il femminicidio è diventato rappresentazione.
Uno scenario dove la narrazione esce dal consesso del segreto custodito dietro tende di operosità, di ricette, di amore senza discussione, di autorità e comando, di silenzi dolorosi.
Una narrazione non più garantita da etichette. Da quando la donna ha avuto il coraggio di denunciare le violenze domestiche - e quelle sessuali - e di additare al giudizio della comunità gli autori di tali comportamenti.
Allora, il rischio di narrarsi nella tragicità di un finale che scrive la storia nel possesso, nel delitto senza più soluzioni;la storia tragica dove c’è una vittima, che non ha voce e un aggressore che ha scritto, ancora,autoritariamente la parola fine.
L’uomo - ormai braccato - rischia di riappropriarsi dell’odio crudele senza soluzioni
Le vicende sono, così, condotte ad una giustificazione, sotto l’egida dell’amore malato e il protagonista, lasciato solo, portato alla narrazione senza vie di uscita.
Un finale che si scrive addosso; perché non riesce ad elaborare altra trama possibile.
La filosofia Zen, oltre a un modo di essere mistico,- dove l’uomo è unità e insieme interdipendente da ogni altro fenomeno,- professa un’agricoltura sana e rispettosa della naturale fertilità del suolo.
Di contro la tecnica di coltivazione di tradizione europea si basa sulla prassi di sterilizzare il terreno ripulendolo fino ad ottenere una semplificazione biologica del prodotto da coltivare.
Attuando un trattamento capace di rendere i terreni ostili ad ogni altra forma di vita.
Un sistema per il quale si favorisce un progressivo indebolimento delle piante e delle colture che diventano soggette ad attacchi di malattie e di parassiti che si combatteranno, poi, con altri sistemi chimici, in un perenne circolo vizioso.
Le tecniche agricole su basano, quindi, sull’uso indiscriminato di pesticidi che sono causa, diretta e indiretta di malattie metaboliche.
Malattie che, di conseguenza, gravano in maniera abnorme sulle spese di assistenza sanitaria.
Qui osservando che, nelle commissioni ministeriali, la voce autorevole continua ad essere quella di chimici e non di esperti in agro ecologia con il risultato evidente di un incremento dell’uso di pesticidi; ben il 35% superiore alla media europea.
Un danno sociale che “avallato” dal silenzio del Ministero della Salute si coniuga con un danno all’ambiente e all’economia del territorio; perdendo le possibilità di una conversione ad una agricoltura integrata, ecologica ed ecosostenibile; peraltro finanziata dalla UE.
In questo ultimo periodo si è consolidato l’incubo del prodotto agricolo “avvelenato”; dovendosi annotare che le agenzie sul territorio non sempre danno risposte adeguate poiché non sono monitorati, né ufficializzati i siti e tutte le zone dove la mano dell’uomo ha distrutto l’ambiente sversando materiali di ogni genere in nome della logica del profitto e del malaffare.
Emergendo il silenzio colpevole di chi sapeva da tempo senza aver avuto il coraggio di parlare e il dovere di intervenire e l’obbligo morale di apprestare rimedi.
E la comunità, nel contempo, ha introiettato la paura di ammalarsi.
Nella “terra dei fuochi” lievita la disperazione per il territorio inquinato ma il fenomeno è nazionale per la presenza di discariche abusive e di discariche non bonificate pericolosamente vicine alle coltivazioni.
I consumatori cercano una difesa informandosi sulla provenienza dei prodotti e c’è tutto un proliferare di mercatini rionali; nel mentre è sparita sulle etichette dei supermercati la provenienza locale e/o regionale a favore di un generico e sommesso” provenienza Italy”.
È oggettivamente poco.
Viene da pensare che i criminali ambientali sappiano bene dove comprare i prodotti non inquinati; sapendone la provenienza da terre che non hanno devastato.
Potendo presumersi che abbiano spacci dove approvvigionarsi, anche a costi elevati; determinando – consapevolmente- , a maggior danno, una sperequazione sociale su una diversificata possibilità di approvvigionamento ai fini nutrizionali.
O, i criminali ambientali praticano la cultura Zen? Coltivano, forse, i loro orti nascondendoli alla collettività, in luoghi segreti, sicuri, inaccessibili? A loro beneficio e a beneficio dei loro cari sodali.
È, forse, loro la filosofia della posternazione? Baciare la terra recitando la preghiera: “Bacia la terra con i tuoi piedi. Imprimi sulla terra il tuo amore e la tua gioia. La terrà sarà al sicuro se c’è sicurezza in noi”?
Il potere, morale e culturale, di determinare - in ogni ambito: sociale , politico, familiare - dovrebbe prendere misura esclusiva dalla dimensione dell’uomo, che possiede insita la cifra dell’interesse ad operare.
Questo potere è la legittimazione ad agire; dunque, esercitare un determinato ruolo. Con l’autorevolezza che proviene dai valori individuali come bagaglio riconosciuto e riconoscibile nel tempo.
La perdita della autorevolezza determina la delegittimazione; ovvero, la perdita delle prerogative e delle funzioni del ruolo.
Se la delegittimazione può avvenire per cause imputabili a colui che la subisce, il più delle volte è funzionale a esaltare singolari interessi in contrapposizione a quelli del delegittimando o delegittimato.
Si pensi ad un conflitto tra coniugi laddove l’uno delegittima l’altro sia nelle decisioni affettive dei figli o nelle cause di separazione conflittuali. Così tra politici , o artisti e via di seguito .
Manifestandosi due categorie di interessi : uno morale, l’atro particolare e/o economico.
Il termine è entrato prepotentemente nel lessico comune poiché la delegittimazione, vera o presunta, è diventata una teorizzazione per marcare contrapposizioni all’avversario da isolare ed esporre alla pubblica piazza.
Così il “potere di” si attua nella formula “potere a danno di”.
Venticelli e sussurri di calunnie, manipolazioni della verità dei fatti, interpretazioni di comodo, spergiuri sono alcuni dei mezzi per raggiungere lo scopo di delegittimare l’avversario; renderlo incredibile, privarlo di autorevolezza., quindi di consenso.
La perdita di legittimazione morale – riferita all’ambito politico - comporta decisamente l’esclusione .
I regimi totalitari hanno attinto a questa metodologia; usando forme di svalutazione personale, sociale e di gruppi o etnie fino al punto di ingenerare conseguenze inarrestabili quali conflitti, massacri e stermini .
In un breve escursus di riferimenti basterà riportarsi alla “scomunica” (con la connessa – e più rilevante- perdita di interessi secolari), o alla inquisizione, o all’ostracismo e, finanche, alle caterinarie di ciceroniana memoria.
Alla fine , per demolire un avversario, un “nemico”, finanche un oppositore, basterà delegittimarlo; anche soltanto insinuando.
La società è diventata, quasi, un vegetale che si nutre artificialmente di regole.
Accrescendo un sistema di leggi che, di fatto, è diventato –diventa- un sistema legalistico e paralizzante che toglie iniziative e facoltà; che toglie la tensione ad un mondo al quale partecipare attivamente con la spiritualità che compete all’uomo.
Le regole servono per sconfiggere le ragioni.
Pretendendo una patente di verità - sacramentata in un limbo di tempo finito - per rimuovere ostacoli e per mantenere una visione della organizzazione sociale subordinata a finalità strumentali che, attraverso la manipolazione del diritto “naturale”, si allontana dai diritti.
Questo è tanto più vero per la diffusa corruzione di idee, di sentimenti, di moralità e, perfino, di legittimità
Si porta a restringere, contrarre e ritrattare, annullandoli, anche diritti già acquisiti al patrimonio comune in una stupefacente palinodia di Stato
Si avverte il progetto di un tentativo di “appiattimento verso il basso”. Con un processo di categorizzazione laddove se non si è “negli elenchi delle arti”, “negli elenchi dei mercati”, negli elenchi della politica” si è nella impossibilità di esercitare - e vedere riconosciuta - l’intera gamma delle proprie potenzialità.
La società delle regole nega l’esistenza della straordinarietà individuale; che esce dal coro di un gregge pilotato e strumentalizzato.
La società si manifesta con elenchi di norme e di titoli funzionali alla dimostrazione di una realtà democratica che, viceversa, per quegli “elenchi”, non esiste. Una società che sotterraneamente zittisce il dissenso e isola i “diversi”.
La società normata non è tesa a individuare le libertà di pensiero.
Non può ;immaginare diritti umani in divenire.
I proponenti di pensieri “liberi” devono attraversare lotte e sofferenze.
Il mondo si accorge degli “eroi” soltanto “dopo”. A volte, la morte serve per le sole celebrazioni; orfane del pensiero vivo, lasciato in eredità.
Una società che “aspira” ad appiattirsi sulle necessità primarie e sulla sopravvivenza, delegittima costantemente la propria funzione.
Appiattendosi, sapientemente pilota la corruzione; oggi, perfino, oscenamente esibita.
Il tutto per introdurre regole che allontanino dal concetto di felicità. Principio non previsto nella nostra Costituzione; dove, però, non è esclusa l’infelicità.
I legalisti -gli intransigenti oltre ogni ragione, i falsi profeti della morale- all’opera da tempo, sanno che una società, basata alla lettera sulla legge, non permette di raggiungere traguardi elevati e non riesce a sfruttare l’intera gamma delle potenzialità umane, del pensiero che vive e si evolve, delle visioni che si dilatano nelle possibilità di esservi e che si colora e contamina culturalmente di altri diritti umani possibili.
Intanto, educano alla paura del disastro, dell’ignoto, del baratro.
Pontificano e ciarlano, ingannando, : “ … sì, siamo delegittimati … sì hai ragione. ti abbiamo tolto il sorriso e il futuro … ti derubiamo e ti tagliamo i diritti … e perfino l’esercizio di quelli che ti avevamo garantito … sì, ti togliamo i viveri e ti trasformiamo in un esercito di straccioni urlanti, desiderosi di desiderare all’infinito la felicità … ma senza di noi sarebbe il caos … non ti puoi liberare di noi … sei in una morsa letale! …”. Un incubo!
Rifletto … scriveva Leopardi nello Zibaldone: “Solo quando la corruzione degli uomini appare definitiva, si avverte il bisogno di essere stretti da leggi, patti, obbligazioni che dovrebbero correggere quella corruzione”.
I legalisti hanno scuse per giustificare la propria corruzione.
“nello svolgimento delle loro funzioni, magistrati ed avvocati sono chiamati entrambi a combattere la battaglia del diritto, nel dominio del suo contenuto di giustizia e nel rispetto delle norme e delle forme poste a tutela dei cittadini e delle umane personalità".
Queste parole venivano pronunciate da Enrico Pessina all’’inaugurazione della Biblioteca di Castel Capuano,nel 1896.
Prima c’era stato Don Pedro di Toledo che, proprio a Castel Capuano, aveva creato la sede dell’amministrazione Giudiziaria con l’allestimento del Sacro Regio Consiglio,della Regia Camera della Sommaria, della Gran Corte della Vicaria, con annessi sotterranei che furono adibiti a prigioni.
Nel XVI secolo, durante il viceregno di Don Pedro, si edificò quella fortezza di uomini, composta da avvocati e magistrati chiamati ad amministrare la Giustizia con logiche che avrebbero condizionato - e forse imbarbarito per sempre - il tessuto sociale del meridione accumulando e centralizzando interessi con l’ “ accentrare la res publica in mano ai togati,”, quindi, con “esclusione del ceto medio e produttivo a favore di una classe sociale che si arricchiva in modo parassitario di cause provenienti da ogni parte del regno.”
Avvocati e magistrati, appartenevano al medesimo ordine, i “forensi”, la cui fortuna derivava in particolare dalla “imperfezione delle leggi”; come sostenne il Galanti.
Nel celeberrimo “Testamento forense” il Galanti, assumeva, acutamente, la necessità di procedere a riforme urgenti nella struttura dello Stato; riforme che dovevano prevedere, necessariamente, la vibrata condanna per gli arbitrii feudali e la proclamazione definitiva della perfetta uguaglianza dei cittadini - e di ogni ceto sociale- dinanzi alla legge.
Nonostante l’apporto di figure eccelse dell’Avvocatura e della Magistratura - che nel tempo hanno lasciato testimonianze di vite poderose spese per la Giustizia - tutto appare, ancora oggi, maggiormente oggi, paralizzato in logiche antiche.
Il coronamento del sogno d’amore “dinanzi alla legge” (metafora da “El amor en los tiempos del cólera”) diventa irraggiungibile per la Giustizia, al tempo della crisi.
I nuovi “forensi” sono quelli che si infiltrano -o vengono infiltrati- nelle istituzioni; per non cambiare, per mantenere, per accentrare e difendere interessi di lobbies da un agire diverso.
I nuovi “forensi” sono quelli che stanno a presidiare norme sulla prescrizione; quelli che garantiscono leggi personali; quelli che agiscono perché le leggi vengano disattese, ignorate o “impupazzate”.
I nuovi “forensi” sono gli operatori del diritto che vengono invocati un compiere un lavoro pulito e scientifico, nel rispetto della interpretazione delle leggi, ma , diverso, molto diverso, dalla applicazione nei tempi umani tollerati delle persone.
La tutela della Giustizia è campo di battaglia dove i contendenti provengono da due domini diversi: da un lato i politici, da un lato i magistrati e gli avvocati.
La Giustizia ai tempi della crisi subisce il sovrapporsi confuso dei due domini e rimane senza presidio.
"non restate, perciò, donne ingegnose"
“Non restate, perciò, donne ingegnose, / di por la barca di virtude al scoglio: / lasciate l’ago, fatevi bramose / sovente in operar la penna e il foglio, / chè non men vi farete gloriose / di questi tai di cui molto mi doglio. / O state dunque attente in la lettura, / con somma diligenza e lunga cura.”.
Così scriveva la poetessa Laura Bacio Terracina, nobildonna napoletana che non trascurava di esortare le donne di “farsi bramose “ di letture; emancipandosi da ago e filo.
Non è l’unico esempio di poesia che si veste di denuncia sociale; le donne poetesse sia da posizione di privilegio sociale, che da cortigiane o da mistiche hanno voluto e potuto additare e smascherare ipocrisie e vere ingiustizie sociali.
La mistica Teresa D’Avila, con versi complessi e profondi, affermò la sua concezione candida, ma rigorosa, della fede e del suo concetto di povertà arrivando a fondare trentadue monasteri. Si rese invisa, per la sua intransigenza e austerità, alle autorità ecclesiastiche fino al punto di essere denunciata più volte all’Inquisizione.
Che dire, poi, della brutale prevaricazione di potere familiare esercitato da padre e fratelli di Isabella di Morra che ha lasciato versi di straordinaria intensità; Benedetto Croce ne annovererà i versi nella poesia immortale.
La cortigiana Veronica Franco, dotata oltre che di bellezza, di ingegno e cultura, fornì – fornisce , ancor oggi - un maliziosa spaccato della posizione della donna nella società e nel privato: “ E così noi, che siam di voi più sagge, / per non contender vi portiamo in spalla, / com’anco chi ha piè porta chi cagge. “.
La donna nella poesia mostra il coraggio di raccontare il suo destino e, insieme, il coraggio di trasgredire a quest’ordine delle cose: “ So bene che le donne non dovrebbero scrivere; ciononostante, io scrivo.”. La affermazione è di Marceline Desbordes Valmore, poliedrica cantora che si conquisterà, più tardi, la stima di Paul Verlaine.
Le donne anticonformiste e il loro coraggio nella poesia di Elizabeth Barrett Browning, poetessa inglese che celebrò l’amore “ In quanti modi t’amo? Lascia che conti “ e, nel contempo, denunciò la vergogna dello sfruttamento minorile nell’opera “ lamento dei bambini” ed esaltò i valori della libertà, in una Italia oppressa dalla dominazione straniera, ne “ I sonetti dal Portoghese ”.
La poesia di denuncia parla nel mondo e per il mondo.
Per bocca di donne, ieri come oggi, come Joumama Haddad: “Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà fosse una loro concessione / E ringraziassi e obbedissi / Ma io sono libera prima e dopo di loro, con e senza di loro / Sono libera nella vittoria e nella sconfitta / La mia prigione è la mia volontà! / La chiave della prigione è la loro lingua / Tuttavia la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio / E al mio desiderio non impartiscono ordini.”.
Le poetesse contemporanee parlano di anima e di isolamento, di luoghi e di miserie, di speranze e di dominazioni; usando un efficace fondamentalismo civile per raccontare di omicidi dell’anima;
Gli ultimi fatti di cronaca - che hanno visto l’ennesima vittima di stupro in India, una donna quasi bambina, violentata e bruciata viva - mi fa chiudere con le parole che usa Marge Piercy per gli stupri di Missoula, rimasti impuniti: ” Non c'è differenza tra l' essere stuprata / e scaraventata giù da una rampa di scale / tranne che le ferite sanguinano anche dentro. / Non c'è differenza tra l' essere stuprata / ed essere investita da un camion / tranne che dopo gli uomini ti chiedono se ti è piaciuto. / Non c'è differenza tra l' essere stuprata / e perdere una mano in una falciatrice / se non che i dottori non vogliono essere coinvolti, / la polizia sfoggia un ghigno d' intesa / e nei piccoli centri diventi una puttana patentata. / Non c'è differenza tra l' essere stuprata / ed essere morsa da un serpente a sonagli / se non che la gente domanda se la tua gonna era corta / e perché tu comunque eri fuori. / Non c'é differenza tra l' essere stuprata / e andare a sbattere dritta contro il parabrezza / tranne il fatto che dopo tu non hai paura delle auto / ma di metà del genere umano. / La paura dello stupro è un vento freddo che soffia ininterrotto / sulla schiena incurvata di una donna. / Mai girare da sola in una strada sabbiosa /in mezzo a una pineta; / mai salire su un sentiero che attraversa una montagna brulla / senza quell' alluminio nella bocca / vedendo un uomo arrampicarsi vicino. / Mai aprire la porta a chi bussa / senza un rasoio che escoria appena la gola. / La paura del lato in ombra delle siepi, / del sedile posteriore dell' auto, / della casa vuota che fa tintinnare le chiavi come un avvertimento di serpente. / La paura dell' uomo che sorride / con un coltello nella tasca. / La paura dell' uomo contegnoso / nel cui pugno c'è astio sottochiave. “
la grande bellezza o la grande lentezza
La grande bellezza o la grande lentezza?
L’VIII congresso dell’OUA (Organismo Unitario dell’Avvocatura) - che si è tenuto nella straordinaria cornice di Castel Capuano - ha mostrato, come nel film di Sorrentino, decadenza e opulenza, mistificazioni e contraddizioni; una scolorita visione della realtà tra autocelebrazione ed estetica, tra autoreferenzialità e drammaticità della realtà dell’Avvocatura “operaia”.
Avvocatura “operaia” che si trova a vivere una violenta esclusione sociale studiata e perseguita con lucidità e scientificità inquietante dai “ padroni che dettano le regole”.
La critica non ha toccato, l’attività degli avvocati lobbisti. Quegli avvocati “massimalisti” che annoverano, come clientela, banche, assicurazioni, enti economici, lobbies di varia configurazione e provenienza e che ne rappresentano –nella decadenza di valori etici - gli interessi; fruendo della lungaggine, della inefficienza, della farraginosità dei bizantinismi del sistema giustizia. Avvocati che operano con le “spalle coperte” dalla immensa capacità economica pervasiva e persuasiva dei loro potenti clienti; a discapito di cittadini assistiti dagli Avvocati “operai, forti solo di coraggio.
Sembra quindi accentuarsi e scatenarsi, come dire, una “lotta di classe” all’interno dell’Avvocatura tra abbienti, con rendite di posizione professionale, ed “operai”, il cui lavoro professionale è dedicato ai singoli cittadini ai quali è stato sottratto, con l’aumento delle spese processuali, quel minimo di diritti dei quali si nutre la democrazia.
Classi dell’Avvocatura che non sanciscono diversità di sapere, di impegno, di garanzia nella quotidianità della difesa, nei tanti giorni di attività giudiziaria.
Credo che la incipiente “lotta di classe” riguarderà la disciplina e la deontologia; riguarderà, ancor più, l’obbligo di verità, molte volte disatteso, che investe lo stesso presupposto di ordine pubblico processuale, esaminato alla luce dei tanti episodi di corruzione che la cronaca giudiziaria ci racconta costantemente.
Si può temere, che la corruzione - che ormai travolge ogni aspetto della vita quotidiana - si riversi ancor più sui cittadini; utenti incolpevoli, pagatori sanguinanti della malagiustizia, della malapolitica, della malasanità e della malavita - intesa come disagio esistenziale ed emarginazione sociale -.
L’Avvocatura deve prepararsi - con dedizione e nonostante tutto - a combattere le arguzie strumentali e le raffinatezze bizantine; con abnegazione, trasparenza ed equidistanza; senza sconti.
La Magistratura, nel contempo, dovrebbe, forse, fare una sana autocritica delle sue proprie inefficienze; atteso che nelle patrie galere languono esseri umani in attesa di giudizio, che vi è un contenzioso arretrato spaventoso in quasi tutti i settori del civile (in quello contabile si contano “pensioni di guerra” ancora in corso).
Si può ritenere opportuno che si modifichi il metodo di autoreferenzialità della Magistratura; ritornando a commissioni che valutino l’attività e il merito del singolo Magistrato? ( non è concepibile che per un ritardo di 2246 giorni, pari a sei anni, per il deposito di una sentenza sia stata comminata una “perdita di anzianità di 25 giorni”).
Mi dissocio, come molti altri Avvocati, dalle dichiarazioni di contestazione preannunciate: ovvero, l’astensione dalle udienze.
È, a mio avviso, una misura inefficace, ibrida, inutile che favorisce il burocratismo che si vuole combattere.
Si ottengono solo lunghi rinvii dei procedimenti, con danno ai cittadini, parti processuali,. Quegli stessi cittadini che l’Avvocatura afferma di voler tutelare.
Occorre coerenza.
Le donne, la dea della fertilità, la dea dell’abbondanza e della natura, la dea dell’amore e della sessualità tanto celebrate e rappresentate nell’armonia della natura nell’arte ieratica antica sono state trasformate ed intese quali soggetti da umiliare, svilire, ricattare, sopportare.
Una sorta di “bandite dell’utero”: donne, danno e dintorni nella strumentale indignazione degli uomini e delle stesse donne.
Non è un caso che le quote rosa vengano percepite come una diminuzione e uno sfregio. Un controsenso: le donne non vogliono contare e contarsi. Donne acculturate dichiarano: “non siamo animali in via di estinzione da salvare come patrimonio dell’umanità, non siamo una specie da accudire con modalità paternalistiche.”
Nel mentre le femministe francesi si sono ribellate alla cultura della memoria che celebra soltanto gli uomini illustri , sepolti nel Panthéon denunciando un anacronismo imbarazzante; un simbolo “monumentale” della disparità tra i sessi, nella società.
Le femministe francesi si sono dedicate, finanche, a promuovere una consultazione on line alla quale hanno partecipato con entusiasmo trentamila francesi. Questa è la forza delle idee, delle provocazioni, delle iniziative, della curiosità storica, della inventiva.
Diversamente, in Italia, con interesse palese o subdolo, si registra una pericolosa visione “biodegradabile” della figura femminile; intendendola come un problema marginale e fastidioso che si può – anzi, è doveroso - emarginare e ridimensionare: “biodegradare”, appunto.
Il gesto dell’on. Dambruoso, che percuote al collo e spintona la cittadina Lupo, assume valore simbolico del gesto di violenza repressa, tipicamente maschile.
Ma, anche la signora Dell’Oglio, di contro, si esibisce in affermazioni quali “ meglio le olgettine che le sceme di sinistra che scopano gratis “ per, poi, aggiungere … “ma è pieno di donne di sinistra che scopano i parrucconi per vedersi pubblicati i libri“.
Si deve, ancora, ascoltare un Presidente della Corte di assise di Appello, dichiarare - all’indomani della sentenza di condanna nei confronti della Amanda Knox e Raffaele Sollecito - : “... se Amanda fosse andata a lavorare, probabilmente l’omicidio non sarebbe mai successo. Non si sarebbe creata questa occasione … “; riconducendo a noia esistenziale (di una donna) le motivazioni del delitto!
Occorre notare che anche la giornalista, signora Palombelli, ha manifestato un affondo, senza dubbio inopportuno, durante la trasmissione “Quarto Grado” con il riconnettere la sentenza di condanna alla bellezza della Knox ; anche in confronto , svilente, con la vittima, definita “bruttina”.
Imbarazzanti – non altrimenti si possono definire - le registrazioni trasmesse nel corso del programma “Chi l’ha visto?” riferite ad una giovane donna scomparsa, poi ritrovata morta,: “Quella puttana scomparsa … questa è una puttana. E’ una zoccola ed ora non ce ne possiamo fottere perché c’è “Chi l’ha visto?” che se ne occupa. … Il padre poi rompe sempre i coglioni in caserma …”.
Donne e uomini che, per proprio interesse ed in spregio alla femminilità - alle stesse donne – si mettono in fila per vedersi pubblicati panphlet sulla condizione femminile. Una interminabile attesa di finissime/i e raffinatissime/i intellettuali , di destra e di sinistra, di sotto e di sopra, di politici ed ex politici, di ex magistrati, di ex servizi e, perfino, di condannati pentiti delle proprie furie omicidiarie.
Se le donne italiane non vogliono comprendere l’urgenza di esserci e di determinare il sociale e il politico, di affermare la propria dignità, mi trasferisco, idealmente, in Francia.
“Accattatavelle!”, diceva Sofia Loren; in uno spot pubblicitario girato anni fa per una marca di mortadella.
Per le finanze dello stato, la necessità di fare cassa è diventata una urgenza. Si procede a dismissioni, svendite e privatizzazioni per contenere un deficit che si è accumulato per anni. Una nazione, una famiglia, finita in mano a strozzini nazionali e internazionali, speculatori e pescecani in odore di sangue.
Un freno, a tutto ciò, che dovrà essere posto nei programmi del nuovo governo, dai nuovi ministri e dalle nuove compagini di contorno, esautorandone i guardiani che fanno del burocratismo il contemporaneo modo di manipolare la democrazia.
La burocratizzazione della vita civile, e il parassitismo politico sono legati e interdipendenti e rappresentano una vera malattia dei paesi democratici. Secondo Tocqueville: “possono generare forme impressionanti di distruzione di risorse e di ricchezze , possono portare all’asservimento di intere popolazioni, possono portare al collasso di grandi aggregazioni politiche e di intere civiltà”
La estrema burocratizzazione che ognuno percepisce nella vita civile, quasi negli atti quotidiani della vita sociale, va a braccetto con quella paralisi che serve ad occultare responsabilità personali o di gruppi di diversa umanità fatta di funzionari manager, lobbisti e burocrati accumunati dal concetto “tutti colpevoli, nessun colpevole”, ormai divenuto un mantra.
Il vero cuore pulsante del potere governativo sono le strutture burocratiche – esterne ed interne - a cui si affidano i politici per competenze tecniche e per relazioni di potere. Sono i burocrati, inamovibili; i veri depositari della stabilità o instabilità; capaci di ingabbiare, paralizzare, creare ostacoli, far cadere governi o tenerli in carrozzella. ˂i burocrati, in specie la massa dei gradi superiori, costituiscono una classe sociale, con interessi propri, diversi e contrastanti con quelli di altre classi, che essi credono di meglio tutelare attraverso la stabilizzazione delle istituzioni in atto e dei loro rapporti con le forze politiche" (Gallino, Dizionario di Sociologia, Utet, 1978, pag. 82) ˃.
La “patologia burocratica” oggi si è estesa finanche fuori dai settori che le erano statisticamente attribuiti; esportata, come appare evidente, in ogni settore. Gravemente, anche in quello dell’amministrazione della giustizia. Quella dove operano, oramai, i “lobbisti burocrati” che, esasperando e utilizzando il formalismo giuridico, producono perdite di valori etici e malagiustizia.
Il burocrate patologico si autocompiace, ripiegato sul potere e sul valore degli "atti" e della "carta" e, a dispetto della chiarezza; si specializza in tortuosità che necessitano di rimozioni.
Rimozioni che dovrebbero essere un obiettivo primario per ogni società democratica, per ogni governo.
La donna nella storia è ingombrante per la sua figura e il suo ruolo, poiché la percezione, a volte conflittuale, tra corpo spirituale (emotività) , corpo fisico (passionalità) e corpo mistico (procreazione) , è fonte di troppe combinazioni complesse che si tentano di semplificare o, forse, più gravemente, banalizzare per riceverne meno problematiche e averne meno disturbo.
La donna, nelle categorie nelle quali viene catalogata, più o meno inconsciamente rivendica, soprattutto, il diritto a pari dignità, pari opportunità con eliminazione di tutte le discriminazioni legate a sesso, religione colore della pelle (discriminazioni che, ancora oggi, sono fonte di emarginazione).
Si possono comunque leggere della storia della donna alcuni passaggi con evidenza di grandi personalità che hanno dato impulso a condizioni sociali in discussione nella modernità.
Invero fin dal Paleolitico una divisione di compiti ha emarginato la donna a ruolo subalterno: il passaggio dalla ortocultura alla agricoltura intensiva con l’uso della forza animale si ritiene abbia tolto alle donne il potere di controllare e gestire le risorse necessarie alla sopravvivenza della comunità, passata da una dieta a base vegetale a quella della selvaggina cacciata dagli uomini.
Ma, già nell’Europa medioevale vennero poste le basi della modernità sociale-psicologica del femminile da Eloisa (nelle lettere ad Abelardo), poi da Katherina Hetzeldorfer (per il processo che la vide coinvolta, causa “relazioni femminili”) ovvero da Margherita d’Austria, duchessa di Savoia e reggente dei Paesi Bassi (tre volte sposata e giunta alla gestione del potere) , e, ancora, da Marguerite Porete (andata al rogo e partecipe del movimento delle “beghine”, 'associazione di donne che si dedicavano alla vita religiosa senza prendere i voti monastici).
Si annota che una visione negazionista e oltremodo misogena viene da contributi recenti forniti da sociologi che trovano seguiti discutibili e imbarazzanti da parte di uomini che protestano la loro marginalità rispetto ad un mondo incentrato fortemente su un presunto “potere” femminile.
Invero, secondo Warren Farrell, la donna riceve protezioni speciali poiché passa dalla potestà patriarcale a quella maritale e, poi, statale; da questa ricevendone privilegi, poiché il legislatore diventa un surrogato del guru e poi del marito.
Qui una nota: leggendo Farrel, la donna è più ricca non solo perché quando la si porta a cena non paga, ma, anche, perché, vivendo più a lungo dell’uomo, eredita ed accresce, in tal modo, il suo potere economico.
Ah, gli uomini fanno lavori più duri - finanche la guerra, morendo per la patria - ancora una volta a beneficio delle donne!
E, poi, bisogna riflettere che le donne uccidono più degli uomini perché, usando veleni, non vengono scoperte; potendo, finanche permettersi una manovalanza sottopagata e criminale per far commettere omicidi su commissione.
Tutto vero?
Alla fermata del bus ho avuto occasione di osservare, per un mese, una persona nei pressi di un semaforo di via Marina.
Era magro, sulla cinquantina d’anni. Agile, portava sulle braccia una serie di pacchi di fazzolettini di carta che, appena il semaforo segnalava il rosso e le auto si fermavano, lanciava sui parabrezza come se giocasse a frisbee.
Si muoveva come invasato perché il suo scopo sembrava il movimento in quanto tale non il tentativo di vendere la sua merce.
Allo scoccare del verde riprendeva, correndo, il suo percorso a ritroso con movimenti acrobatici, felini, nel tentativo di recuperare nuovamente la merce; a dispetto della velocità delle auto in ripartenza nervosa.
A volte, una inutile corsa.
Raccoglieva i fazzolettini, che non riusciva a recuperare a volo, in terra; schiacciati dalle ruote. Altri li perdeva perché, rimasti in bilico sui parabrezza, accompagnavano i conducenti alla loro meta.
Un muoversi inutile, una strategia perdente.
Mi colpiva il suo agire meccanico; come se fosse oggetto e insieme vittima di una sperimentazione da laboratorio il cui scopo fosse calcolare l’energia impiegata in relazione ai tempi occorsi tra distribuzione e raccolta. Con statistica dei pezzi venduti anche in presenza di tale anomalo tentativo a di vendita.
Ma quanto tempo può resistere un uomo alle intemperie e per quanto tempo può sopravvivere a quell’andirivieni spasmodico, senza costrutto?
Un giorno scomparve; non l’ho più rivisto.
Mi è rimasta la sensazione che non riuscisse ad uscire da una sofferenza, da una gabbia; tentando di superare, forse a suo modo, lo smarrimento e l’insuccesso ignorandolo ostinatamente.
Mi viene in mente una espressione popolare: “ ccà nun nce ‘a facimme cchiù, facimme ‘e bôtte co’ ’i ppère”
Per chi ignora la forma dialettale la traduzione/interpretazione è: “ qui non ce la facciamo più, siamo costretti a battere i piedi e fare rumore”.
Il contenuto filosofico è, invece, più complicato e, perfino, allegorico: “non abbiamo energia per sopravvivere, facciamo rumore con i piedi per segnalare la nostra esistenza, il nostro disagio”.
Il rumore è un segno di presenza, di dissenso, di rottura, di protesta, di discontinuità e di allarme.
Luigi Russolo, nell’idea espressa nel manifesto futurista del rumore, arrivò a costruire e brevettare un rumorarmonio; una specie di amplificatore dei suoni/rumori; pensando ad una musica che dovesse utilizzare non solo i suoni, ma anche i rumori che costituiscono il sottofondo dell’esistenza umana.
Russolo arrivò a dirigere un vero concerto; con tutti gli intonarumori da lui inventati e suddivise gli esecutori in : gorgogliatori, crepitatori, ululatori, rombatori, scoppiatori, sibilatori, ronzatori, stropicciatori, scrosciatori.
Ma l’uomo dei kleenex, al semaforo rosso di via Marina, era silenzioso.
Al mercato stamattina si parla di politica.
(il dialogo si è svolto in napoletano; lo riporto tradotto letteralmente, per la piena comprensibilità)
- adesso vi faccio vedere che Berlusconi muore!
- altro che pedofilia e compagnia bella, ha finito di darsi da fare
- ma voi lo vedete cambiare i pannoloni e medicare e lavare i vecchi?
- lo deve fare per forza
- lo fanno morire, ve lo dico io!
- lui ha fatto soltanto bene a tutti … faceva beneficenza a tutti
- ma quale beneficenza? di quale beneficenza parlate? … voi siete di Berlusconi … basta parlarne … lui la beneficenza la faceva a se stesso … basta , ora!
- ma quello che c’è ora a chi fa beneficenza? quattro soldi a quelli che lavorano?
- e i disoccupati? pure quello dice di fare beneficenza e aiutare la gente … ma quando mai, signora, … quello è un ragazzino che promette e non mantiene
- ma perché hanno levato la cittadinanza? come dice … come si chiama quello … ? la cittadinanza faceva comodo a chi non aveva niente!
- voi la avete mai percepita la cittadinanza?
- no! io ho la pensione … ne ho diritto … ma ora ci tolgono anche questa e … buonanotte …
- i terreni … perché non danno le terre per far lavorare … quante ce ne sono …
- pulcinella con un percossa alla volta, uccise la moglie …
- adesso vi faccio vedere che Berlusconi lo uccidono ... muore!
Un dialogo di diretta derivazione televisiva, quella dei talk show e della rissa, delle parole gettate in faccia all’interlocutore e allo spettatore senza averle soppesate ma solo spettacolarizzate; finanche con finali a sorpresa, frutti di elaborazione di tutto quello che è stato spacciato per modernità e progresso.
Ho pubblicato (nella mia rubrica DIVERSAMENTE ITALIANI) un parte dell’intervento di Basso alla Assemblea costituente: ” … oggi la società non si può considerare una somma di individui, perché l'individuo vuoto non ha senso se non in quanto membro della società. Nessuno vive isolato, ma ciascun uomo acquista senso e valore dal rapporto con gli altri uomini; l'uomo non è, in definitiva, che un centro di rapporti sociali e dalla pienezza e dalla complessità dei nostri rapporti esso può soltanto trovar senso e valore. “
I nostri Padri fondatori (che dovevano prendere distanze da regimi devastanti, creare le basi, attraverso il lavoro, per una società più giusta coniugando potere dello Stato e libertà individuali) immaginavano una società formata da individui che percepivano la missione di essere parte della vita associata, vero centro dei rapporti sociali.
I bisogni fondamentali dell’uomo sociale, nella sua complessità, diversità, singolarità sono stati rispettati oppure si è privilegiata una omologazione appiattita spacciandola per destinazione sociale dell’individuo?
La società rurale e analfabeta del tempo non poteva porsi il problema della individualità, complessità ed egoismi dell’essere umano, si doveva formare una nazione.
L’uomo e le sue complessità sono compatibili con l’uomo sociale?
“Una democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. E’ prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza comunicata e congiunta. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano ad un interesse in modo che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri….” (John Dewey)
Gli altri sono una “necessità di fatto”, affermava Sartre; e Freud sosteneva: “L’individuo conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendentemente dal suo volere … ”.
Questa visione psicanalitica ci porta a riflettere ancora una volta sulla prospettiva politica della democrazia, un luogo dove riaffermare che il mondo composto da individui, con uguali diritti davanti alla legge, deve superare egoismi e individualismi che bloccano costantemente questo percorso.
Pure, non è sufficiente per una risposta adeguata
“perché non danno le terre ai disoccupati per farli lavorare” … e rifletto: ma è la necessità ignorante o la cultura che promuove idee sociali?
ho incontrato personaggi di varia natura
Nella mia vita sociale, professionale e personale ho incontrato, a volte semplicemente incrociato –forse, solo odorato -, personaggi di varia natura.
Richard, William, John, Robert e, qualche volta, anche Peter o Walter ( nomi rigorosamente medievali, inglesi, del XIV secolo).
Personaggi mistificatori, sfruttatori, millantatori, bugiardi, corruttori conclamati o occulti (la cui verginità è più subdola di una peste bubbonica ), nonché ignavi, lestofanti, professionisti rotti a una visione di vita, fatta di inganni e profitto; insomma: carogne vere!
Occorre riflettere che il significato metaforico di “carogna”, nella lingua italiana, è indicativo, generalmente, di persona losca, abietta, che usa le sue peculiarità (negative) per ricevere un lucro, di qualunque natura.
Nella lingua napoletana la traduzione di “carogna” si contestualizza in variabili identificazioni sociali; espressa, peraltro, nella cadenza adottata per la pronuncia: si vorrà così, di volta in volta, indicare il dispotico o il turpe o il violento o il gagliardo e finanche, il maliardo, nella seduzione amorosa.
La cronaca e la conoscenza individuale si sono oggi contaminate e mescolate e si fa estrema e inutile fatica a ricondurle ai fatti, nelle loro connessioni tra relazioni e realtà (giuste o ingiuste, legali o abusive); cronaca o mitizzazioni di un discorrere necessario o opportunamente orientato.
“genny ‘a carogna”, pseudonimo del Signor Gennaro De Tommaso (non altrimenti, se non pseudonimo, può essere considerato “genny ‘a carogna” per l’identificazione della persona, che ne deriva) ha usufruito di una promozione diffusiva per l’uso che ne hanno fatto i mass media, pure nell’esercizio del diritto di cronaca.
Un logo, un valore economico, un valore, volente o nolente, penetrato nel mercato globale.
Al diritto di tutela del nome e dell’immagine - che si configura come diritto a vedere riconosciute le proprie caratteristiche individuali socialmente percepite o conosciute - lo pseudonimo riceve le stesse garanzie di cui all’art. 7 cc , nonché dalla legge sul diritto d’autore.
“genny ‘a carogna” potrebbe, finanche, essere registrato come logo, come marchio garantito, a prodotti e servizi, dal codice civile all’art. 2569.
Usufruendo della promozione già ricevuta, si potrebbero, conseguentemente, produrre caffè sportivi “genny ‘a carogna” o, per la conseguita fama internazionale, “genny ‘a carogna” potrebbe prendere il posto di Blaine - ultimo fidanzato di Barbie che ha già sostituito Ken, surfista tiepido e indeciso - per approdare ad una possibile immagine/ipotesi di mercato: un verace tifoso?
Per ora, di certo, si prepara a ricevere un posto d’onore tra le statuine del presepe a S. Gregorio Armeno; in nome di quella nota, malinconica, disincantata napoletanità; i turisti, passeggiando per il centro storico, diranno:” very pittoresco”!
Strumentalizzato o commercializzato, con il marchio “genny ‘a carogna” saremmo nel mondo globalizzato della nostra terza repubblica, del 2014 A.D.
“Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere” ( Giovanni Falcone)
Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, Agostino Pianta, Pietro Scaglione, Francesco Ferlaino, Francesco Coco, Cesare Terranova, Mario Amato, Gaetano Costa, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Bruno Caccia, Rocco Chinnici, Giuseppe Di Lello, Alberto Giacomelli, Antonino Saetta (con il figlio Stefano), Rosario Livatino, Antonio Scopelliti e poi Antonio Occorsio, Riccardo Palma, Girolamo Tartaglione, Fedele Calvosa, Emilio Alessandrini, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli e con loro le donne e gli uomini delle scorte: Antonio Lorusso, Giovanni Saponara e Antioco Diana Mario Trapani e Salvatore Bartilotta Vito Schifani, Lenin Mancuso ,Rocco Dicillo e Antonio Mortinaro, Emanuela Lisi, Vincenzo LiMuli, Walter Cosina e Claudio Traina.
Questi nomi scorrevano su un maxischermo, nella “Piazza Coperta” del Tribunale di Napoli.
Una installazione inconsueta nell’evento promosso dalla Giunta Distrettuale della Associazione Nazionale Magistrati , di cui, Presidente, la Dott.ssa Silvana Sica.
Un evento senza alcuna pretesa di becera commemorazione. Senza palchi e prime fila. Privo di slogans, di distanze e di distingui. Una aggregazione di persone che si avvicinavano, consapevoli della gravità di quelle morti che interessano l’intera collettività. Aprendo una riflessione sottile, non sbandierata né strumentalizzata, ricordo che deve impegnare responsabilmente ciascuno, Magistrati, Avvocati, Cittadini.
La Dott.ssa Sica ha anticipato i brevi ritratti che ricordavano ciascuno degli scomparsi ad opera di giovani Magistrati – in un passaggio emblematico di consegne- rilevando il loro essere stati cittadini, cittadini-magistrati: “si consideravano persone comuni “ e come tali protesi alla difesa dello stato democratico e costituzionale”.
I brevi ritratti degli uccisi da mafie e terrorismi ( di varie sigle e provenienza ma accumunate dalla stessa sprezzante noncuranza della vita altrui) rendevano tangibili, rinnovavano, la fisionomia di uomini, padri, mariti, figli, figure di cittadini che stavano semplicemente svolgendo il loro dovere con rigore ed onestà.
La commozione è stata palpabile, con voci sommesse accompagnate da ricordi personali: “ognuno di noi ricorda cosa esattamente stava facendo in quel momento”. A rimarcare che, dopo, nulla era stato, è stato, come prima.
Un evento “da strada” , “da piazza” che ha reso una dignità di uso a “Piazza Coperta”, facendo rilevare la sua possibile funzione a piazza dell’ “agorà” dove far emergere tra Magistratura e Avvocatura – molte volte criticamente in contrasto, anche interpretativo delle norme – un possibile luogo di pratica delle comuni risorse culturali ed etico/sociali.
I miei occhi giacciono
in fondo al mare
nel cuore delle alghe e dei coralli.
Seduto se ne stava
e silenzioso
stretto a tenaglia
tra il cielo e la terra
e gli occhi
fissi nell’abisso.
(Peppino Impastato – giornalista e poeta , ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978)
Per una osservazione del mutamento sociale intervenuto e del fenomeno delle nuove comunicazioni non si può non evidenziare che, nel progressivo stravolgimento tecnologico, si viene a manifestare una qualche difficoltà - e finanche rifiuto- della Avvocatura anziana a rapportarsi con le nuove conoscenze e possibilità.
Occorre ipotizzare significative integrazioni tra la cultura tecnologica, l’esperienza professionale e i nuovi modelli processuali; anche nella più vasta applicazione del processo telematico che potrebbe ricevere una spinta concreta alla sua auspicata realizzazione.
Quanto sopra, varrà ipotizzare una figura obbligatoria: quella del responsabile del procedimento telematico; con competenze altamente qualificate, in grado di favorire, sostenere, concentrare e accelerare sia la fase preliminare, che quella processuale delle liti.
A ciò non può non coniugarsi il tema dell’avviamento professionale dei praticanti avvocati; costretti, il più delle volte, ad una attesa estenuante della affermazione di una attitudine che, spesso, si esaurisce a causa di impossibilità economiche a sostenere la necessaria esperienza culturale e pragmatica, ovvero per un approccio privo delle opportune, minime, competenze; finanche sviliti in un lavoro di “segretariato” per il dominus.
La presente proposta vuole rappresentare uno stimolo di riflessione su una praticabile ipotesi di riconoscere e sostenere competenze scientifiche e culturali; soddisfacendo attività necessarie nell’ambito dei nuovi scenari tecnologici e, finanche, nelle nuove geometrie degli uffici giudiziari.
Una proposta atta a creare sia un sostegno operativo qualificato a quanti, avvocati, non riescono o non vogliono condividere le ormai obbligate pratiche tecnologiche (così estraniandosi e/o esautorandosi dall’attività forense), quindi ampliandone i margini di operatività, sia, ancora, a delineare una figura intermedia; utile a dipanare il broglio di un contenzioso ormai in eccesso che grava sulla Magistratura.
Consentendo, peraltro, alla giovane avvocatura un percorso privilegiato e retribuito; nella ricerca e nello studio delle forme interpretative e istitutive del diritto, corrente e futuribile.
La proposta si sviluppa su questi punti:
a- Costituzione di un “Albo dei Responsabili del Processo Telematico”, albo curato dai Consigli degli Ordini Territoriali, con accesso dei praticanti avvocato previo esame attitudinale alla tecnologia giuridica, vertente sulla conoscenza specialistica della informatica, con riferimento al processo telematico,
b- Obbligo di nomina del “Responsabile del Processo Telematico”, da parte degli Studi che ne usufruiscono, per la durata del periodo del praticantato; con previsione dell’attribuzione di crediti formativi,
c- Onere per gli Studi di comunicare e nominare, presso le Cancellerie Giudiziarie, il “Responsabile del Processo Telematico”, come da Albo, accreditandone le competenze e funzioni,
d- Retribuzione mensile con quantificazione determinata dal Consiglio Nazionale Forense; con previsione di defiscalizzazioni per gli Studi e di sostegno finanziario per incentivi, a favore della occupazione giovanile e dall’avviamento al lavoro, stanziati su progetti di sviluppo di leggi nazionali e/o regionali.
Nel 1791 Olympe de Gouges pubblicava la “Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne”.
La Dichiarazione di Olympe de Gouges, pure modellata sulla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” -del 1789 - era mirata a evidenziarne e colmarne le lacune laddove si manifestava la esclusione delle donne; non solo dai principi di libertà e uguaglianza protestati dalla rivoluzione ma, finanche, emarginandole da una serie di diritti: dal voto, all’accesso alle istituzioni pubbliche; dalle libertà professionali, ai diritti di proprietà.
La” Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne” è un atto di accusa, moderno ed estremamente attuale rispetto alla cronaca che ci allarma, ci opprime, ci indigna ogni giorno.
“ Uomo, sei capace d'essere giusto? È una donna che ti pone la domanda; tu non la priverai almeno di questo diritto. Dimmi? Chi ti ha concesso la suprema autorità di opprimere il mio sesso? La tua forza? Il tuo ingegno? ”
La lungimiranza di Olympe, il suo coraggio, la sua determinazione si scoprono nella visione che aveva della società e del ruolo della donna all’interno di essa.
Il suo pensiero spaziava da un sistema di protezione delle madri e dei bambini- con riconoscimento anche dei figli nati fuori dal matrimonio- , alla creazione di alloggi per i non abbienti; da ricoveri dignitosi per i mendicanti, a osservatori per combattere la disoccupazione: una protezione sociale e finanche l’ipotesi di un regolamento contrattuale per i concubini e lo scioglimento dal matrimonio (introdotto dopo la rivoluzione).
Olympe oserà, prima, sfidare Marat, poi, Robespierre; accusando quest’ultimo di mirare alla dittatura con l’introduzione di leggi contrarie alla libertà di pensiero e, dunque, ai principi repubblicani.
Per questo “guadagnandosi” la condanna al patibolo, decretatale dal tribunale rivoluzionario, in uno con la condanna morale per aver “osato” pretendere pari dignità di vita e di morte.
Invero il procuratore del comune di Parigi consegnerà alla storia non solo la esecuzione di Olympe, ma anche l’ammonimento “ ha dimenticato le virtù che convenivano al suo sesso” con un commento irridente, ad esecuzione avvenuta,: “Olympe de Gouges, nata con un’immaginazione esaltata, ha scambiato il suo delirio per un’ispirazione della natura: ha voluto essere un Uomo di Stato. Ieri la legge ha punito questa cospiratrice”.
Quanto queste parole si congiungano, pericolosamente, a quanto affermato da un uomo accusato di maltrattamenti è significativo e impressionante: “ la violenza è solo una scorciatoia”!
E la “cospiratrice” aveva scritto “La libertà e la giustizia consistono nel restituire tutto quello che appartiene agli altri; così l'esercizio dei diritti naturali della donna ha come limiti solo la tirannia perpetua che l'uomo le oppone; questi limiti devono essere riformati dalle leggi della natura e della ragione”.
A ben vedere con lungimiranza poiché, se da un lato professava l’uguaglianza nei diritti sociali, contemporaneamente rivendicava le peculiarità delle differenze armoniose; differenze armoniose che oggi, non a caso, appaiono “ripensate” non già sui modelli della omologazione a tutti i costi, ma sulle differenze.
La parola “sesso” viene oggi sostituita dalla parola “genere”; come qualcosa che si costruisce indipendentemente dalle identità sessuali.
L’invito a guardare alla natura e all’identità (oggi: Steven E. Rhoads), per allontanarsi dall’arroganza del modello unico e predatorio maschile, viene ancora dalla “cospiratrice” denunciato e sollecitato con queste parole: “Osserva il creatore nella sua saggezza; scorri la natura in tutta la sua grandezza, di cui tu sembri volerti raffrontare, e dammi, se hai il coraggio, l'esempio di questo tirannico potere; Dappertutto tu li troverai confusi, dappertutto essi cooperano, in un insieme armonioso, a questo capolavoro immortale” .
Oggi, opponiamo, all’oscenità del modello unico, la differenza qualificata. Basterà?
una geriatria della democrazia
Sopravvivono, in capo alle Camere e al Senato, prerogative, nate per garantire i diritti di sovranità dello Stato da qualsivoglia interferenza o “attentato” anche da parte del potere giudiziario.
Tali prerogative si definiscono “autodichie”; e sono delle potestà di autogiurisdizione.
Nel tempo sono diventate una sorta di territorio inespugnabile -dominato da privilegi, gestito dai parlamentari- dove si decidono assunzioni, trattamenti di lavoro, pensionamenti, riguardanti dipendenti di Camera e Senato e non solo.
Si è discusso sulla compatibilità ai principi costituzionali che garantiscono diritti di uguaglianza, di difesa e la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi senza esclusioni o limitazioni a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.
Il quesito sulla effettiva imparzialità di tali organismi è stato sollevato a più riprese e numerose sentenze innanzi alla Corte Costituzionale e alla Corte di Cassazione hanno sempre ribadito la conformità e legittimità degli organi di autodichia ritenendo che, pur composti da deputati, questi ultimi non facessero venir meno la loro indipendenza sulle principali questioni amministrative riguardanti anche rapporti esterni alla Camera.
Si è dovuto attendere l’iniziativa di due dipendenti che si sono rivolti alla Corte di Strasburgo per vedere dichiarata la contrarietà alle norme CEDU che stabilisce che ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente … da un tribunale indipendente ed imparziale,costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile.
La Corte di Strasburgo si è limitata a ravvisare nella simultanea composizione parlamentare della “Commissione giurisdizionale per il personale” e nel “Collegio di appello” (vedi http://leg16.camera.it/954) una mancanza di imparzialità, una “semplice” violazione dell’art. 6 CEDU.
Il profilo penale del reato di stalking - previsto dall’art. 612 bis) del codice penale - è proteso alla tutela di diritti costituzionali allorquando sono minacciati i valori di tutela e libertà individuali garantiti dalla Carta: “… chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita ...”
Le elaborazioni giurisprudenziali che sono intervenute hanno, come dire, ampliato l’ambito di applicazione che, nell’immaginario collettivo, è stato associato quasi sempre alla violenza sulle donne e agli omicidi di donne; non anche a tutti quei comportamenti capaci di infierire su una vittima con modalità anche subdole, attuandole con lo scopo di provocare un danno.
Ci si aspetta che le regole giuridiche siano in grado di garantire, in concreto, un’adeguata e sufficiente tutela a tutti i bisogni sociali; ma, purtroppo, la maggior parte delle volte non è così; anzi, spesso, si ha la percezione di vivere in una società in cui la parola “tutela” è solo una mera utopia.
É questa la sensazione che affiora in tutte le vittime di stalking, le quali vedono costantemente leso il proprio diritto alla sicurezza personale; diritto tra l’altro riconosciuto anche dall’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani laddove è sancito. “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”.
Se lo stalking è ravvisabile in un insieme di comportamenti o, anche, in quell’insieme di omissioni che trovano, o dovrebbero trovare, sanzioni certe da parte dello stato, quale l’interpretazione del reato, oltre la lettera della norma, quando vieta che “ il perseguitato sia costretto ad alterare le proprie abitudini di vita”?
Del contesto socio/economico che viviamo (che produce la necessità di lavorare pure nella certezza di contrarre gravi malattie o, peggio, andare incontro a morti statistiche; che produce disoccupazione e, poi, estrema povertà delle famiglie; che produce cibo non controllato; che facolta l’introduzione di veleni nei terreni e nei cibi; che toglie alla casa il privilegio di bene primario; che genera una tale mancanza di prospettive da “consentire” il suicidio) non è forse responsabile lo Stato?
Non è forse obbligo etico/sociale dello Stato –attraverso i sui propri organismi - rimuovere tutti gli ostacoli che vadano a compromettere la dignità nonchè i diritti al lavoro, alla istruzione, alla sanità, ad una vita serena, allo sviluppo armonico e culturale della collettività?
I valori risultano talmente alterati, offesi, vilipesi che diversi sacerdoti si sono pronunciati dichiarando che chi ruba per necessità non può essere annoverato tra i peccatori.
La mancanza di controllo sul territorio, la mancanza di controllo sull’accumulo delle ricchezze, la mancata vigilanza sulle vicende di corruzione privata o di gruppi, la pressione fiscale strettamente legata al malcostume diffuso di non pagare le tasse da parte dei ricchi; lo strozzare i poveri con malversazioni generano una diseguaglianza intollerabile, un abbassamento della soglia del controllo politico, economico/sociale ed etico/culturale , una depressione, una alterazione della qualità della vita, una sensazione di pericolo per sé e i propri familiari, una alterazione significativa dei valori condivisi.
Si potrebbe delineare uno stalking dello stato?
La questione è delicatissima e tutta soggetta a modificarsi nell’attività legislativa.
Ma lo stalking è comunque violenza e si deve lavorare a rimuoverlo secondo la lezione di Ghandi: “Se esiste un uomo non violento, perché non può esistere una famiglia non violenta, e perché non un villaggio? una città, un paese, un mondo non violento?”.
apartheid e "tribunali speciali"
Oltre dieci anni fa proponevo al Consiglio dell’Ordine di Napoli una iniziativa che avevo intitolato “toghe bianche”, finalizzata a fornire ai laureandi in giurisprudenza esperienze concrete e dinamiche nel contesto e sul campo dove si svolge e si pratica la domanda di giustizia, ovvero nelle aule di udienza.
Anche con la vestizione di una toga bianca, segno virgineo di approccio, con la guida di un Avvocato di “lungo corso”.
Lo scopo? Non disgiunto dall’indossare la toga, per la percezione della sacralità dei luoghi e della funzione sociale della Giustizia, valutare la propria indole se protesa all’essere Giudice o Difensore o, viceversa, indifferente; talchè ricercare una professionalità alternativa come finalità e conseguenza degli studi.
Mi rendo conto, oggi, che la mia proposta era oltre i tempi, o meglio era contro gli interessi che, con costante e perversa strategia, stanno piegando, verso l’altrove, l’Avvocatura.
Invero, i giovani approdati alla professione – con formazione dottrinaria e tenacia - vanno a subire una palese discriminazione; si potrebbe definire: apartheid.
Si delineano, in progressione, attività difensive e di assistenza, conferite con accentramento agli studi professionali (associati e non) adusi a rappresentare interessi non sociali ma a vantaggio di enti economici –di predominanza- che operano ad alti livelli finanziari; a questi ultimi, peraltro, i tempi lunghi della Giustizia non interessano affatto; anzi, vengono sapientemente utilizzati.
Già l’Avvocatura (quella Avvocatura che io definisco “operaia del diritto”) è manifestamente mortificata e impoverita; dovendo rispondere alla utenza del disfacimento della “macchina giustizia” e dei suoi costi proibitivi; utenza, cittadini/clienti, che sempre più si priveranno –saranno costretti a privarsi- dei diritti fondamentali; e non solo di quelli difensivi, ma umani.
I Consigli dell’Ordine – limitandosi a dichiarazioni estetiche - nulla hanno saputo fare per fermare una deriva che si è presentata, da subito, tesa a “proteggere”, se non garantire, le parti forti del sistema sociale dell’economia, delle holding finanziarie e che è destinata a travolge l’ “avvocatura operaia” e, ancor più la giovane Avvocatura.
Si è, di fatto, lavorato a creare una apartheid: uno spettro che già alberga e vaga inquietante nel “sistema giustizia”.
Attuata con una strategia che ha trovato giustificazioni tra i rivoli della necessità di competere, di liberalizzare, di essere europei in salsa italiana (ossia, finanche, disattendendo, nelle aule di giustizia, ogni normativa europea: ignoranza dei Giudici?) e “aborrendo” la finalità altamente politico/sociale della funzione difensiva.
Il rapporto, storicamente triangolare, del processo è, dovrebbe essere, significato dalle parti dialetticamente presenti davanti ad un Giudice terzo e imparziale, che decide in tempi rapidi.
Ma con una “giustizia ricca” - esercitata con estraneità e senza dover rendere conto - si rischierà di portarsi davanti a “tribunali speciali”, fruibili da una casta dominante, con alterazioni e/o “pendenze” dei tempi e temi processuali.
Si è, di fatto, lavorato a creare una apartheid: se ne vedranno, nella loro pienezza, le conseguenze fatte di segregazione civile, umana e professionale.
Non patrocineranno innanzi a tali “tribunali speciali” sia l’ “avvocatura operaia”, sia i giovani Avvocati (nonostante ogni capacità giuridica, anche di livello superiore); questi, se non avranno trovato “posto” nel sistema, se non al riparo di importanti eredità professionali familiari, se non adattatisi alla “precarietà servile” cui sono stati destinati.
Stiamo assistendo alla formazione – subdola e coattiva - di una nuova classe di paria.
Degenerazione della democrazia? Squilli di una “auspicata” dittatura?
Sono notoriamente previste misure di protezione per i testimoni e i “collaboratori di giustizia” - estese, in casi particolari, anche ai familiari degli stessi- adottate nei processi a carico di organizzazioni criminali o per crimini di guerra.
Le misure spaziano dall’ attuare un servizio di scorta e di controllo territoriale, fino alla conclusione del processo, al fornire una nuova identità, con una protezione da parte degli organismi statali per la durata della vita di quanti vengono ad usufruire di tali misure.
Un dispiegamento ed impiego di mezzi e risorse dello stato al fine di garantire apporti processuali per accertare responsabilità e comminare pene.
Di converso nessuna protezione è prevista e/o attivata in favore di quanti si trovano nella condizione di “parti lese”; specie per sofferenza in situazioni conseguenti a corruzione, concussione, abuso d’ufficio ovvero, ed anche, in ambito civile, nelle manifeste evenienze di dominanza economica, abuso del processo, frode processuale; provocate e praticate sia da singoli , sia, soprattutto, da gruppi economici.
Lo stato ha previsto provvidenze per le vittime di usura, racket, criminalità organizzata ma nulla prevede per le vittime della criminalità più subdola e devastante: quella criminalità economica deviante che si nutre di “traffico di influenze” (considerato fisiologico nell’attività lobbistica) e si serve di coperture e connivenze proprio da parte dei soggetti che dovrebbero vigilare.
Nulla prevede, d’altronde, per le vittime di “mobbing giudiziario”.
A mio avviso si manifesta una disparità di interesse –dello stato- nei confronti delle “parti lese”.
Invero le “parti lese” – mai dimenticare: cittadini - subiscono una vera e propria deriva della propria esistenza; in molti casi precipitando in un vortice senza ritorno fatto di degrado e povertà; fino ad estremi –da ritenersi impossibili- quali perdita della abitazione, dell’attività, del minimo di sopravvivenza e finanche del diritto, nel tempo secolare, a vedere riconosciuta la propria posizione di “parte offesa”.
Tra “distrazioni” istituzionali diventano rifiuti umani; completamente ignorati e gettati, ancora sanguinanti e in vita, nella discarica della dimenticanza e dell’oblio; oggetti, finanche, di derisione e disprezzo.
Queste vittime della indifferenza (dal pensionato derubato della pensione al “perseguitato” da cartelle esattoriali impazzite) sono orfane della solidarietà e dei valori etici di uno stato che si dichiara moderno.
Per tali cittadini svantaggiati, offesi e vilipesi, “parti lese” che non fanno platea di ascolto, propongo che lo stato provveda ed attui anche per essi un “programma di protezione”.
Utopia democratica? “Eccesso” di giustizia? Interpretazione “astratta” della Costituzione?
Il fenomeno dell’ imitazione è uno strumento istintivo in dotazione sia al mondo animale che a quello umano che serve per apprendere e per elaborare i dati attraverso le conoscenze.
La psicanalisi considera l’imitazione come un fenomeno di identificazione ( in genere con modelli genitoriali); distinguendolo dal fenomeno patologico della imitazione - originata dalla suggestione- che Karl Jaspers chiama una imitazione isterica e involontaria, per contagio delle masse.
In questa evidenza di contagio, l’individuo diventa preda di fenomeni di comportamenti collettivi; perdendo la propria padronanza e la propria individualità, in uno con la capacità di affrontare i problemi che gli si presentano nella sfera sociale, individuale e psicologica.
L’antropologia, d’altronde, studia lo stesso fenomeno dell’imitazione; classificando l’imitazione come istanza necessaria dell’uomo, portato ad emulare o imitare un soggetto che gli appare felice per cercare di raggiungerne la stessa felicità.
I guasti di tali tendenze sono evidenti in ogni ambito culturale e sociale e non c’è chi non colga la differenza tra imitazione servile e mimetica ed emulazione; tra desiderio di migliorare nella unicità di modelli e una becera esaltazione individualistica senza speranza e valori .
Si manifestano fenomeni imitativi e servili che, anestetizzando le coscienze, esasperano guasti sociali; adesioni acritiche; eventi di invidia, senza speranze; di imitazione senza strumenti, di ripiegamento senza dignità, di forza fisica senza vigore.
Questo scenario è presente spesso nella comunità adolescenziale ( baby gang) dominata da annullamento totale della volontà individuale, per appiattimento alla dinamica di gruppo.
Il fenomeno del contagio imitativo si presenta preoccupante allorquando l’individuo perde la padronanza di sé a seguito di circostanze sociali che non gli consentono né speranze, né dignità, né soluzione.
Tale è il fenomeno dei suicidi, fenomeno di emulazione noto come effetto Werther (dai “dolori” di W. Goethe) condizioni sociali e personali laddove in esse si identifichi un nemico.
Imitando i conflitti, con la violenza e/o l’eliminazione fisica, nei confronti delle donne, nei confronti dei datori, nei confronti dei lavoratori dei servizi, nei confronti del diverso, comunque nei confronti dell’avversario; a seguito di disagi sociali che esplodono per perdita di lavoro o di identità familiare e sociale; ovvero in seguito a fenomeni ritenuti intollerabili e frustranti.
Il suicidio per cause economiche è la proiezione di una lunga frustrazione patita che parla della ottusità e cecità e ingordigia delle istituzioni, della assenza di ascolto, della lentezza esasperante e malata della burocrazia; con la perdita, inesorabile, causa il senso di impotenza, dei valori individuali, della perdita del prestigio personale rispetto a modelli percepiti vincenti e, non ultimo, viceversa della ineluttabilità di un sistema che premia furbi e disonesti, tangentisti e lobbisti ; senza chiedere conto, senza neppure presentare un conto.
Questa percezione è determinata dalla mancanza di un modello evocativo di atteggiamenti e comportamenti comuni e condivisi; è determinata dall’isolamento che frena e annulla rapporti sociali, amicali, familiari e sentimentali, minaccia la struttura sociale e il nucleo stesso su cui si fonda la psicologia sociale.
Serve invertire la tendenza, sbeffeggiare i modelli, condannare i servili servi di sé stessi?
Serve modificare il punto di vista e osteggiare - senza odio ma con fermezza - i servilismi e i servi; valorizzando solo l’umanità che ci stringe la mano, che ci guarda negli occhi; rifugiandoci, se necessario, in un canto fuori dal coro; nel silenzio costruttivo di un lungo, lunghissimo, verso di dissenso.
Non condivido l’evento “sciopero”; ovvero, quindi, la più elegante “astensione”; oggi, quando la tecnologia consente la simultaneità delle comunicazioni e delle decisioni e tutto è affidato, nell’effetto emotivo (poi, riflessivo), ai media.
Lo sciopero si finalizza a provocare disagio per coartare attenzione. Nel presupposto di adesione e consenso. Ma, dal disagio, non procede che altro disagio. In una contrapposizione crescente. Occorrendo riflettere che gli animatori potrebbero essere altrove ovvero in mascheramenti di interessi economici volti a indirizzare le rivendicazioni verso destinazioni di sfruttamento; anche istituzionale.
La protesta, la lotta, non può essere affrontata con obsoleti mezzi e metodi fatti di lamentele e di sfilate, con campanacci e striscioni variopinti.
Una trappola.
In cui precipita l’astensione proclamata dall’Avvocatura; che solleva quesiti nelle strade innescando una serie di disagi prossimi venturi nelle sedi sue proprie; conseguentemente, nelle vite private e sociali dei cittadini e degli avvocati medesimi.
Una giornata di astensione: quindi, differimento delle udienze; quindi, trascinamento dei processi; quindi, crisi sociale per la continuità dei conflitti e ritardi macroscopici della riscossione di crediti; quindi, deprivazione di risorse, economiche e, soprattutto, umane.
Avrei aderito ad una manifestazione/simbolo (tutti abbiamo bisogno di simboli!) che mi sono immaginata in un giorno non di calendario di udienze, in un grande spazio raccolto (uno stadio), dove l’Avvocatura – in toga - ascoltasse brani o citazioni dei nostri Giureconsulti, letti da ciascuno dei presidenti degli Ordini Territoriali; alla fine abbandonando il luogo senza applausi, senza slogans di protesta, dopo un lungo devastante silenzio.
Una manifestazione/simbolo che avrebbe sollecitato i cittadini a risvegliare in sé il desiderio di civiltà etica, di cui chiedono esempi di sostegno: anche questo è un esercizio di difesa.
Ma, sono in voga le “mode di libertà” e la fermentazione della crisi della Repubblica.
etica del processo civile: tra dovere di verità e diritto alla trasparenza
Di questi tempi legalità e trasparenza tracciano i motivi di una diaspora/arma tra le mani di contendenti politici e richiama, prepotentemente, la lotta cruenta e sanguinaria, portata all’estreme conseguenze tra Creonte e Antigone; tra la legalità e la coscienza etica in una visione sociale tutta da riscrivere.
In realtà la questione non è di poco conto e, volendo rimanere nella metafora, la verità e l’interpretazione della verità sono prepotentemente affidate, nel processo civile, a chi è chiamato a giudicare, con terzietà (quindi con imparzialità etica).
I Giudici devono, pertanto, impegnarsi nella deontologia giudiziaria basata sul valore del dubbio e sulla rigorosa ricerca cognitiva; chiamati, mai come in questo momento, a usare la prudenza come valore processuale poiché nel processo si maneggiano contenziosi per interessi prevalentemente economici; laddove, in alcune circostanze, può entrare in gioco la pre-potenza economica di una delle parti, arrogante nell’esercizio dell’azione.
Il quesito sulla necessità della verità nell’ambito del processo civile si era posto ed evidenziato all’alba della riforma del codice di procedura civile, risalente al 1865, così che, nel progetto preliminare di riforma, campeggiava l’art. 26 che prevedeva:” Le parti, i procuratori e i difensori hanno l’obbligo di esporre al giudice i fatti secondo verità e di non proporre domande, difese, eccezioni o prove che non siano di buona fede”; con previsione di una sanzione pecuniaria, di cospicuo valore, nel caso di violazione del suddetto precetto; accanto ad una responsabilità processuale, di natura risarcitoria, a carico della parte soccombente.
Gli obblighi delle parti e le sanzioni pecuniarie, previste in caso di violazione, vennero sottoposte al parere di illustri giuristi ma, tale prospettiva, venne condannata -e, poi, abbandonata - a favore di una blanda - e diremmo bizantina - versione; quale si può leggere all’attualità nell’art. 88, del codice di procedura civile, che si richiama ad un generico dovere di lealtà e probità; senza affondare in questioni morali, deontologiche o rapportato all’odierna esigenza etica, nella regola di trasparenza.
Guido Calogero, in un celebre saggio del 1939 affrontava la questione arrivando alla conclusione che l’obbligo di verità potesse trasformarsi, per i tempi, “in uno strumento inquisitorio o, comunque, in un mezzo indiretto di pressione morale compromettendo il diritto di azione e il diritto difensivo.”.
Una tradizione (peraltro imputabile all’avvocatura) si è, nel tempo, radicalizzata sul concetto del processo: come un luogo dove sono ammesse astuzie tattiche finalizzate alla ricerca della vittoria, salvando la faccia - a volte e non sempre - con un “bon ton” che non va al di là di un esibito “adeguamento” alle regole processuali e, comunque, ad un codice deontologico opacizzato.
Calamandrei assimilava il processo ad una attività ludica – un “gioco” – con “osservanza delle regole del gioco” cioè fedeltà a quei canoni del diritto per cui, se qualcuno dei “campioni in lotta “ viola una regola, il Giudice è tenuto a valutarne le conseguenze e sanzionarle.
Insomma le regole del “gioco” sono la libertà dell’azione, ma senza la libertà di barare.
Ma le regole vengono alterate o modificate dalla forza del potere di convinzione agitato dal richiedente versus il contendente; influenze deputate a suscitare risonanze nella coscienza del giudicante.
Nell’osservazione obiettiva delle vicende processuali, non ci si può astenere dall’amara considerazione che molti comportamenti delle parti e del terzo giudicante impegnino il processo in un pantano dove il “gioco” viene alterato, nelle sue regole, impudentemente .
Così non sempre il risultato è un risultato di giustizia perchè, diventando una rappresentazione ludica, l’esito finale non dipenderà mai dalla effettiva verità della pretesa.
Molti autori, odiernamente, ritengono che il contenuto precettivo dell’articolo 88, del codice processuale, vada agganciato a contenuti di carattere morale; per tracciare un solido confine tra “ la maestria dello schermidore accorto e diligente e i goffi tranelli del truffatore”
In realtà, la prospettiva esaminata non può risolversi in un insieme di regole che, privilegiando la formalità della rappresentazione, neghino un momento significativo e peculiare delle esperienze umane, quindi, dell’esperienza giuridica; esperienza di relazione essenzialmente paritaria; di carattere ontologico e insieme deontologico
Il processo, come luogo del confronto tra pretese soggettive, non può che veicolarsi attraverso una comunicazione su un piano di pari dignità, verità e trasparenza.
Con il riconoscere l’altro come partner della comunicazione, come colui che – concretamente –deve essere messo in grado di argomentare le proprie rivendicazioni, senza che, con artifici e raggiri, gli si impedisca di esercitare questo suo diritto; annientandolo.
Le parti non possono organizzare i loro rapporti basandoli sulla forza (pubblica e/o privata, economica) ma agire nell’orizzonte comune della decisione che è relazione processuale; secondo principi di lealtà e di prudentia.
Quest’ultima non strettamente normativa e che, non a caso, deve essere consegnata al Giudice, onerandolo di principi di onestà intellettuale e responsabilità etico/sociale e morale.
Per questo ritenendo che il Giudice abbia il dovere, l’obbligo, di rispettare e far rispettare i principi fondanti; ogni qualvolta le astuzie e gli inganni palesi di una delle parti processuali, danneggino gravemente le prerogative e le difese dell’altra parte.
Nel 1956 Calamandrei, esortava: “Voi dovete aiutarci, signori Giudici a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.”
Siamo nel 2013. L’esortazione, alta, di Calamandrei pare si sia dispersa.
Il suono e, poi, vocali , consonanti che su uniscono ; sillabe e, poi, parole. Il suono può essere di dolcezze, di richieste, di dialettica di idee, ma anche di violenza. Poi, la parola scritta contiene semi e segni di ogni intenzione sottostante che, fuori dal fonema, deve essere interpretato nella sua essenza comunicativa, nella sua intenzione.
Si parla anche tanto delle moderne comunicazioni dove la parola deve essere sintesi evocativa a volte più efficace di un lungo discorso politico o sociale ma che può diventare un luogo di agghiacciante violenza; i twitters, luogo di scambio di sintesi, di efficacia comunicativa può diventare una trappola di volgarità e gratuità a buon mercato.
La cronaca intanto racconta di storture dove la comunicazione viene maneggiata senza regole, una inconsapevolezza al male, al fare del male puntando un bersaglio indifeso facendolo oggetto di vessazioni di commenti di video rubati mirando selvaggiamente alla sensibilità alla fragilità che ti isola, ti emargina e, sappiamo tristemente dalla cronaca arriva a ucciderti.
La malvagità inconsapevole e la brutalità di giudizi è anche figlia di scompostezze comunicative che rinunciano alla parola significativa e colta per appropriarsi della grossolanità e direi che è tutta proporzionata al livello stesso di cultura in uno al livello di percezione e di sensibilità, una bussola falsata e inceppata sul proprio io comunicativo con grammatiche immorali
Si comincia a parlarne e dopo uno studio su siti che comunicano odio già dai titoli si parla di allarme sociale e si cerca di coinvolgere i social network al controllo dei messaggi alla loro immediata identificazione e alla conseguente immediata rimozione.
Sul fronte del diritto passi significativi, di una percezione più ampia e attuale del dolo generico da stalking, si leggono nella sentenza della Suprema Corte n. 20993/2013 dove si enuncia il principio che “non occorre “una rappresentazione anticipata del risultato finale”.
lettera al signor p.f. (potere forte)
Signor P.F., per Lei e in Suo nome vengono giustificati crimini, stupri di diritti e ogni malefatta; come, per martirii e sacrifici, il nome di Dio.
Per Lei e in Suo nome si organizzano scorribande e commerci di serpenti; Lei ne esce sempre indenne da responsabilità.
Signor P.F., la sua esistenza è dovuta ad un esercito di vermi, pure già in putrefazione: un esercito che annusa, come cani da tartufo, tutti gli odori degli intrighi per denaro, per prestigio criminale, per inerzia morale.
Per il Suo esercito i diritti sono quelli che si ignorano.
Signor P.F., Lei trama di influenzare gruppi umani nei comportamenti e finanche nei pensieri; organizzando la libertà di dissenso perché nessuna contrarietà o indagine possa minimamente turbarla.
Lei, Signor P.F., ha ammalato mortalmente la società e la democrazia con sangue infetto del denaro e del ricatto; ricevendo il plauso dall’omertà degli inetti che decidono di beneficiare di piccoli profitti.
Lei, Signor P.F., ha attinto e continua ad attingere la sua forza dalla difficoltà di sopravvivere che Lei stesso determina: così, si è pronti a derogare da efficienze, controlli, pulizia, trasparenze ed affidarLe, persino, il regolamento delle minime sopraffazioni subite.
Questa visione opaca della società La fa vivere di rendite all’interno della democrazia, protetto dai consigli di amministrazione, dai finanzieri, dalla fila di parlamentari che sanno deviare e ostacolare riforme che consentirebbero di togliere ingessature e praticare la strutturale riabilitazione dell’etica dello stato.
Lei, Signor Potere Forte, sa che noi la combatteremo con un’idea, un progetto, una prospettiva.
Anche, con la consapevolezza di non poter avere la certezza di una possibilità di riuscita; ma, se non tentassimo, ci condanneremmo , per sempre, ad essere un prodotto cannibalizzato di consumo.
“la patafisica - diceva Jarry - è la scienza delle soluzioni immaginarie.”
Si può ben assumere, per comune esperienza, che in questi anni la “patafisica” sia sostituita, come esercitazione dialettica –o depistante - ad un serrato e autentico metodo di studio delle soluzioni.
Nella politica, nelle istituzioni, nei gruppi di potere, nella vita sociale, la realtà oggettiva è stata supplita nelle sue molteplici espressioni dalla spettacolarità , da una visione “patafisica” delle problematiche; con una realtà narrata in funzione del risultato; con la conseguenza di sostituire una possibilità di risultato in un buon risultato; anche con un accentuazione di ir-responsabilità , nelle aule di un tribunale.
Il diritto si è modificato , così, in una sorta di laboratorio concettuale, un luogo dove la realtà viene sostituita da un gioco di prospettive; con un avvelenamento metodico dove tutto diventa una opzione possibile, nell’immaginario, nel fantastico, in un meta sistema di verità.
Una costruzione, certamente non esaustiva, di un mondo dominato, più che mai, da interessi talmente contrapposti da apparire un immaginario scaturito dalla penna di un visionario collegato alla schiuma del possibile; come affermava un autorevole esponente della teoria.
La patafisica è una metodologia di interpretazione della realtà che si può usare, quindi, in contesti innumerevoli, come la fantasia, senza confini tra il lecito o illecito; non a caso è definita “una crisi logica senza via di uscita”.
Qui si deve annotare che quando interpreta il suo esercizio nei Tribunali -nei luoghi, cioè, deputati a un corretto riscontro del modello procedimentale- va direttamente ad incunearsi – dilatandolo - nel vizio del confronto; determinando geometrie variabili senza stabilità fomentando di conseguenza un “mercato” del diritto, liquido; dove la legge è solo quella del più forte, con un vistoso indebolimento del potere decisorio secondo verità e giustizia.
Ladri di realtà e ladri di fiducia diventano un formicaio, uno sciame, una creatura collettiva mostruosa pretestuosamente decisionale: un incubo -con allucinazioni ad effetto domino- che sovverte e travolge, ogni monade di verità, ogni composta verità.
Capita, allora, che l’attività di un avvocato di libero Foro sia di competenza obbligatoria di un Giudice del Lavoro talchè la libertà professionale - sancita da legge speciale - sia una distrazione, una svista, del legislatore.
Capita che un decreto ingiuntivo “debba” essere revocato senza contraddittorio venendo disattese le prove documentali fornite dal contraddittore; anche con condanna esemplare alle spese (violando i principi del giusto processo in virtù di una pretesa competenza a nulla importando sia della condanna di pagamento formulata e del riscontro documentale passato al vaglio del giudice).
Capita che prove fisiche di iscrizione nei conti di mastro del debitore diventino notule avverse senza valore né sostanziale né processuale.
Capita che organismi di controllo non abbiano manifestato censure, per anni.
Capita che dal codice appiano cassati tutti gli eventuali reati attribuibili , dalla calunnia all’appropriazione indebita, dalla falsità ideologica per indurre il giudice all’errore allo stalking … al tentativo di estorsione e quant’altro.
Se tutto questo è nell’ordine naturale delle cose, siamo – sono- in un ciclone globulare.
Ma potrebbe essere l’incombere contestuale del grottesco, del satirico, del comico di una fantasia di verità e di giustizia: patafisica del diritto, insomma.
La elevazione al soglio pontificio di un cardinale dell’america latina ha riproposto riflessioni sulla teologia della liberazione che rappresentò la presa di posizione della gerarchia ecclesiastica sudamericana (poi estesa ad altri paesi da parte di preti-operai) in favore delle popolazioni più diseredate e delle loro lotte nell’opporsi alle dittature militari e ai regimi repressivi; in una visione meno ostile alla legittimità delle lotte per i diritti civili.
Riflessioni che portano a spaziare, dall’ambito segnatamente teologico, sui diritti umani e sul progressivo trasportarsi di essi, come sentimento irrinunciabile di dignità, alle riflessioni filosofiche sulla natura dell’uomo attraverso le più diverse condizioni storico/politiche, stratificando e anche mutando, contraddittoriamente, condizioni di diritto vivente che dai principi medesimi venivano a affermarsi e consolidarsi.
In una relazione strettissima tra rivoluzione e diritto.
Invero se si fossero poste a caposaldo immutabile le previsioni del “cilindro di Ciro” (peraltro, in qualche modo, assorbite dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, del 10 dicembre 1948) non si sarebbe assistito ad un continuo alternante disvalore e anche negazione dei principi cardini. Calati in una interpretazione strumentale di diritto positivo utile a coltivare situazioni di preminenza e di predominanza.
Un esempio esplicativo di tale disvalore: “legge dei sospetti” del 17 settembre 1793 che prospettò la “salvezza” dei principi rivoluzionari di uguaglianza, libertà e fratellanza, con una “paranoia rivoluzionaria” che segnò la riduzione, fino all’annullamento, del rispetto delle libertà individuali.
In effetti, con la “legge dei sospetti” , introducendo un diritto vivente non nella applicazione dei diritti rivoluzionari sanciti ed acquisiti ma nell’interesse di un gruppo (i montagnardi) venivano considerati "indiziati" e sospettati di tradimento e arrestati tutti coloro che “o per la loro condotta, o per i loro rapporti, o per i propositi o gli scritti, si siano mostrati sostenitori della tirannide o del federalismo, e nemici della libertà”.
La “legge dei sospetti” si riversò sulla formazione del corpo sociale senza alcuna preoccupazione per le posizioni dei singoli individui; comitati di sorveglianza sottrassero, poi, ogni potere alle autorità legali e al potere giudiziario.
Se la rivolta è la rappresentazione attiva di un disagio, di una consapevolezza di diseguaglianza, la rivoluzione è il momento di progetto di una comunità organizzata secondo regole che non possono prescindere dalla valorizzazione dei diritti umani alla libertà individuale, alla dignità della persona (in tutte le sue possibili espressioni), alla ricerca di un criterio di giustizia attuato mediante leggi che prevedano la regolamentazione politica dei principi e la capacità di valutazione delle trasgressioni secondo parità ed equità.
Si pone allora un duplice problema: Quello della coerenza legislativa rispetto ai crismi “rivoluzionari” e quella della autonomia morale ed etico sociale dei giudici preposti ad amministrare la giustizia.
Con un principio di colpevolezza incidente o sul dolo sociale dei legislatori (che dovrebbe essere censurato con un’azione rivoluzionaria di ripristino dei valori ideologici e fondanti) o sull’adesione silente dei giudici ogni qualvolta ritengano di fare esercizio di applicazione pedissequa della legge, senza utilizzare la facoltà di dissociarsene.
Insomma il rapporto tra rivoluzione e diritto, pure distinguendosene, implicita il rapporto tra rivolta e interesse. La rivoluzione, elaborata su principi da una aristocrazia di pensiero che se ne distacca dagli effetti; la rivolta, da una elite protesa a motivarsi e referenziarsi sui principi e mossa al raggiungimento di preminenze soggettive.
La nostra Costituzione procede da un atto rivoluzionario, di lotta e di liberazione che voleva meditare, assorbire e rappresentare alle generazioni presenti e future pensieri, lontani e antichi, di dignità disegnati su creta, tramandati nei secoli per tenere alta la voce della coscienza dei giusti
Ma le leggi e l’uso delle leggi e l’applicazione delle leggi ormai ne disattendono i principi. E si agita il vento di rivolta, senza una rivoluzione che sappia di nuovo, e ancora, armonizzare il diritto dei giusti.
Estenuanti attese che, con scaltrezza mistificatoria, fanno passare per momentanee, sentite riflessione.
Sono attese sterili, come sterili le parole che l’accompagnano, come sterili i progetti sottostanti.
Senza visioni future; impantanate in giochi di necessità e di sopravvivenza cautelativa: la misura della vita non è più quella umana con i suoi diritti, ma quella del profitto a lungo termine, una sorta di fine pena mai.
Con queste castronerie l’Italia sta andando a picco e con l’Italia i singoli cittadini fuori delle statistiche che parlano di quattro polli a testa (buona digestione a tutti!)o o di una casa a testa ( non importa che siano di proprietà delle banche o accentrate in incalcolabili ricchezze di pochi: statistiche reali delle politiche predatorie che le tolgono in forza di legge ai senza patria di diritti e dignità).
Il dado falso deve essere tratto.
Oggi è tratto sul finanziamento pubblico ai partiti, prelievo forzato democrazia assicurata, e rinviato al 2017, in attesa di “altre proposte”
Un dado falso tratto per la riforma del mercato del lavoro: una legge messa a segno nel giugno 2012 dal governo tecnico; con una sospetta larga, larghissima maggioranza che ha dovuto alimentare tale scempio lacrimoso sulla necessità drammatica di dover offrire garanzie per ripagare l’Europa della “fiducia”nel sistema Italia.
Una tappa necessaria - in agenda da anni-; una trappola alle tutele del lavoro attraversate da anni di lotta ma sacrificate a un compromesso, utile, nelle “ipotesi”, a sprigionare energie più libere e tanta, tanta competitività da essere idonee a favorire la ripresa; ma, sempre, con calma.
La posta costituzionale, continuamente in gioco, ha consentito solo un ripensamento circa la reintroduzione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo o discriminatorio.
La valutazione caso su caso ( non semplice in una lotta tra imprenditoria capace di far valere ragioni di mercato e il lavoratore sfiduciato) tocca alla Magistratura che deve fare i conti con spazi discrezionali fragili, se non ambigui, tra le ragioni delle imprese ed equilibri imposti dall’alto che hanno annullato i miglioramenti delle condizioni dei lavoratori, ottenute attraverso anni di lotte sindacali e sociali.
La crisi economica e sociale - che avrebbe potuto sollecitare revisioni critiche e portare ad individuare e isolare diverse precise responsabilità e soluzioni- isola i cittadini in decisioni imposte in nome di questa; sventolata per invocare scenari apocalittici ma, contestualmente, per favorire un agire dove i principi fondamentali sono messi in discussione se non minacciati ( oggi si parla di possibili riequilibri a partire dal 2076, con indice di ottimismo da valutare tra un decennio).
Illustri costituzionalisti, studiosi, liberi pensatori e una buona parte dei media lanciano ogni giorno allarmi, fondatissimi, sul potere della finanza mondiale che opera sotto “l’ombrello ideologico della libertà di mercato”.
Potere che, non avendo un governo ma una governance, agisca in totale libertà condizionando pesantemente le politiche e le scelte dei governi istituzionali, a totale detrimento dei cittadini che sono relegati a ruoli marginali di nuovi schiavi.
La regola imperativa che tutti devono ossequiare diventa una nuova ideologia; un refrain di un pensiero unico dove, di fronte alle difficoltà per tutti, non esistono diritti da esigere ma solo privilegi da alimentare a danno di altri; una disparità generazionale che diventa incolmabile: attese senza soluzioni.
Poi vediamo.
Quando le donne erano “attive”, per il diritto al voto, e quando erano in prima linea, per acquisire altri diritti fondamentali, si esponeva, con vigore, la richiesta di uscire dalle maglie di una società retriva e falsamente bacchettona dove il potere era maschile; di padri padroni e da questi gestito, saldamente, da secoli.
Qualcosa non torna se la donna ha acquisito nell’ultimo secolo diritti ma se tali diritti sono rimasti sulla carta senza essere seminati nella società, sparpagliati nella famiglia, interiorizzati nel sociale e assimilati nella cultura.
Si è forse compiaciuta di una libertà formale e formalizzata?
Debbo annotare che ha, ancora una volta, delegato gli uomini alla facoltà di farsi scegliere per poter rappresentare il femminile: le “quote rosa” (terminologia che sembra tanto di pubblicità da odore di urina negli ascensori - pubblicità regresso -) che, in sé, esprimono una incongruità giacchè alle parti svantaggiate socialmente si concede una partecipazione formale e subordinata.
Debbo annotare che, finanche, ha assimilato e fatto proprio il linguaggio del maschile; mettendo sotto scorta la propria sensibilità fatta di intuito, lievità psicologiche, immedesimazioni.
Debbo annotare che ha privilegiato personali scelte ancillari; dimenticando le ingiustizie che vedono la donna, la femminilità, negata, perseguitata e vittima.
Su quali versanti portare la riflessione e la “competizione emulativa”: quello delle false vampire, (quasi false invalidi) capaci di difendersi, di provocare, di scegliere, di rifiutare ovvero quello delle donne capaci di intercettare e vivere la propria sensibilità e cultura del femminile?
Un conto è fare della seduzione un gioco, un modo di essere, una disposizione innocente dell’animo; altro è proporla quale strumento per disorientare, produrre debolezze; alterare le dosi di coraggio, gli equilibri di forza.
Le donne sembra vogliano dimenticare che hanno in tutela la pace, il lavoro dignitoso, la protezione delle famiglie, la equità sociale, la dignità del corpo, la cura del territorio, la libertà di espressione, la gestione della giustizia: per un progresso di civiltà a favore del tessuto sociale.
E le donne non intendono dare rappresentanza alle donne.
Così che la loro partecipazione è carente, insufficiente, finanche deleteria; perché quelle che sono, per così dire, arrivate (magistrate, politiche, amministratrici, giornaliste e via dicendo), il più delle volte, appaiono perseguire e mantenere modelli sclerotizzati sul maschile.
Diventano settarie e competitive; dimenticano l’intelligenza corposa e magnetica del femminile uniformandosi a tipologie inadeguate, con atteggiamenti interpersonali quasi maschi, in agguato col solito metodo sedativo.
Occorre che le donne compongano le loro vite, alfine, in momenti di “complicità sociale”, di cui ha detto Paulette Ievoli, per dare origine a una autentica “rivoluzione” finalizzata alla conquista del potere; per elaborare e determinare un diritto e norme al femminile.
Una lenta processione di uomini e donne arriva al tavolo apparecchiato con fine porcellana e tovaglie pregiate.
Sono circospetti e con un patto di silenzio: hanno giurato di fingere indifferenza ai piaceri della tavola.
La distanza è siderale non solo tra la cucina e la sala da pranzo ma tra il lavoro silenzioso di Babette e degli assistenti e il piacere dei commensali che sono lì per una celebrazione e devotamente mangeranno.
A capotavola le due sorelle.
Dietro la facciata di sacrificio delle loro ambizioni e talenti personali, si sono votate al bene della comunità attraverso un controllo cinico, attraverso una direzione crudele della necessità e del dovere: un collante potentissimo, una operosità che ha bisogno di un esercito di parolai per funzionare; una predicazione furiosa per governare gli animi.
Al centro della tavola, il generale.
Altero ed esperto, possiede bei modi e didatticamente gusta il cibo.
Tutt’intorno i celebranti del “ricordo”necessario: il decano, che come un’ombra sovrintende, anche da morto.
Babette e i suoi assistenti sono indaffarati; pronti a servire la cena.
Si incomincia.
Consomè di “sudore dei lavoratori”
Antipasto di “costituzione”
Sformato “disoccupato”
Arrosto di “capponi” alla finanza
Insalata di “mutui” all’erba cipollina
Formaggi misti “derivati”
Savarin all’ “ambiente”
Frutta mista affettata di pesche “imu”, ananas “irpef”, fichi selvaggi “iva”
Caffè con pinolate di “cultura” , frollini di “ricerca”, amaretti di “sanità”
Vini rosso “corruzione”
Champagne “impudenza”
Tutti i commensali imparano presto che l’appetito vien mangiando, la sete passa bevendo e le parole tacciono godendo. Il tavolo è il luogo dei silenzi mascherati.
Sostituiscono all’acqua, il vino; alle parole, il piacere dell’omertà sazia.
Il generale, alla fine del pasto, ebbro di gioia, sazio di buoni sentimenti e perso nella sua grandezza (non sa neppure tanta goduria chi l’abbia preparata) dichiara solennemente: “rettitudine e felicità si sono baciate”
Ah, la cena? Pagata da Babette!
Personaggi:
Babette e la sua cucina : esodati, disoccupati, pensionati, emarginati
le due sorelle: i parlamenti
il generale: il potere
i commensali: varia umanità (impiegati, finanzieri, professionisti, funzionari, etc)
il decano: l’ingordigia
“Bene - dissi -, nello Stato abbiamo riconosciuto tre delle virtù, così almeno sembra: quale può essere ora l'ultima, che lo rende compiutamente virtuoso?
La giustizia evidentemente.” (Platone)
Nella Grecia antica diritto e giustizia erano un amalgama perfetto che si cercava attraverso il dialogo.
Il diritto, per essere tale, doveva essere necessariamente giusto.
Con l’onestà di immaginare le emergenze sociali elaborando diritti nell’equilibri tra i fatti e la loro interpretazione; al riparo del verbo del già detto, del non esplorato, del banalizzato che diventa, rischia di diventare, “stupro accademico”
La odierna separazione tra giustizia e diritto ha generato una creatura mostruosa che non produce il giusto obiettivato in un principio o in una norma ma, al contrario, lo trasmuta in verità processuale emersa dalle carte, occultata nelle intenzioni intrisa dei dogmi, sbandierata come una virtù da ossequiare, avulsa dalla giustizia.
Diritto e giustizia si sono separati, forse consensualmente, generando, come nelle separazioni, solo regole offuscate: come una storia d’amore, impantanata nei torti subiti e avulsa dalle domanda e risposte che erano state , fino a ieri, alimentate dalla comprensione.
La legge è diventata così forte, così pervasiva, così dogmatica -allo stesso tempo- che ha neutralizzato il linguaggio nelle sue possibilità del dire, dell’immaginare, del prevedere, nel concertare soluzioni; offuscando, inesorabilmente, il volto del giusto e la visione in divenire.
Si parla, da più parti, di una prossima “fine del mondo”.
Secondo le più accreditate profezie causa qualche evento che, inevitabile e inesorabile, proverrà dallo spazio: una distruzione per cataclismi provocati da meteoriti che bersagliarebbero la terra.
Forse, anche, visitatori, alieni che verrebbero a distruggerla o assoggettarla.
Abbiamo contemporanee conoscenze scientifiche, studi antropologici e paleontologici, che ci spiegano come antiche civiltà siano scomparse e, con certezza, per mano di uomini-
Uomini che abbatterono le foreste, portando all’estinzione piante e animali; portando alla desertificazione; facendo precipitare la loro società nella implosione.
Il fenomeno della completa scomparsa di antiche civiltà ha trovato, così, d’accordo quasi tutti gli studiosi che sono giunti ad attribuirne la responsabilità all’uomo a quell’uomo che ha distrutto l’ambiente per soddisfare la propria esaltazione di potere lasciando all’umanità la testimonianza di ciò con giganteschi simboli di pietra.
Per erigere quei simboli di privilegio, disboscavano il territorio, distruggevano i raccolti e le risorse operose; poi, senza più legna non poterono costruire barche e si resero inaccessibile il mare e con il mare la pesca, il cibo.
Alla fine si contrapposero l’uno contro l’altro, per padroneggiare la paura e la fame; affidandosi ad idoli sempre più esigenti nella ferocia.
Oggi, un paradosso: addossare responsabilità salvifiche delle responsabilità che loro competono ad eventi esterni e inevitabili.
Responsabilità che, per lucro, interessi di bottega e menefreghismo, esaspera la tragica e volontaria teoria di non essere ospite nella natura; esenti da colpe, nel violentarla.
È inutile esplorare il campo degli inquinanti che l’uomo, pervertito a sé stesso, sversa sulla terra.
Si chiamano “pop”, ma nulla hanno a che vedere con la musica: sono acronimo di “persistent organic pollutans”.
Sono tossici: velenosi e cancerogeni.
Siamo tutti già un poco “broncosauri” – se destinati alla sopravvivenza- ed è inutile aspettare che il ciclo di purificazione della cattiva coscienza riprenda a funzionare.
Quintali di amianto a cielo aperto non sono una installazione post-moderna.
Sul versante legislativo, sembra che la caccia allo sversatore impazzito non sia neppure iniziata; poiché si lascia piena autonomia alle fabbriche di produrre lavoro e malattie: un vero risparmio o investimento ed incremento della produzione anche sanitaria e farmacologica?
C’è qualcuno che abbia pensato che ogni struttura inquinante - anche una conceria o una officina o una produzione intensiva e selvaggia di allevamento animale o una farmacia e comunque ogni attività produttiva sul territorio - abbisognasse di una figura gestoria dello smaltimento, con responsabilità anche penale?
Una figura, che io definisco e ho elaborato come “amministratore dell’ambiente, che debba rendere conto - sempre, ogni giorno - alle autorità amministrative e penali dei rifiuti prodotti e della filiera di trasferimento per lo smaltimento e la purificazione e/o riciclo.
Intanto, prove di “fine del mondo”.
Da “lei non sa chi sono io” a “sei una zoccola” c’è un mare di “ineleganze linguistiche” alle quali pare che la magistratura abbia concesso (ancora, a volte, concede) salvacondotti ed esoneri da responsabilità.
Non può, quindi, destare meraviglia la motivazione contenuta in una richiesta di archiviazione laddove il magistrato (vpo e donna) precisa: “le espressioni riferite come offensive ed oltraggiose ben possono ricondursi a quello che viene definito normale turpiloquio, rientrante però nel gergo comune che non viene percepito come offensivo e denigratorio; in particolare l’espressione avvocato del cacchio ha certamente un carattere tenue e deve valutarsi nel contesto di una situazione nella quale certamente gli animi si sono esacerbati; la frase mi avete rotto il cazzo non può allo stesso modo rivestire carattere ingiurioso ben potendo essere equiparata alla frase ˂ mi avete rotto le scatole˃ “.
Una operazione “estetica” praticata dalla donna-magistrato che riconduce a “normale turpiloquio” la frase; fino al punto di scalfirne la incisività, trovandole un equivalente più blando e meno grave.
Assistiamo inerti –e siamo costretti a “giustificare”- una esasperazione del linguaggio televisivo, a ridosso di una sfida politica, che ormai si gioca tra “pagliaccio” e altri epiteti; fino a chiedere conto, tra l’indifferenza generale, del numero e della identità delle ”mignotte” candidate.
Si ricorre al linguaggio semplificato (che riflette caratteristiche di una società patriarcale) attraversato da giudizi che sono, insieme, generalizzazione e banalizzazione asimmetrica della realtà.
Tenendo ad attingere consenso, presso livelli culturali più insidiosi, con trappole linguistiche: con giudizi – blindati nell’anonimato- lasciati alla fantasia dominante, alle immagini collettive, alle opinioni correnti.
Siamo lontani dalla indignazione scaturita dalla frase pronunciata da un ministro inglese rivolta ad un vigile: “ lei è un plebeo” (pare che il ministro, dimissionario, abbia negato di essersi espresso con “fottuto plebeo”, rivendicando di aver pronunciato solo il termine “plebeo”; ma questo è il tipico humor inglese, molto pittoresco).
In Italia ci sono voluti anni di impunità alla frase ”lei non sa chi sono io” (frase che percorreva l’intera penisola: abusata da tutte le classi sociali e gettonata da molti potenti –di insita comicità che aveva l’effetto di ridicolizzare chi la profferiva-) prima che la Corte di Cassazione la valutasse “reato di minaccia”.
Nella sentenza del “lei non sa chi sono io” la Corte di Cassazione ha sottolineato che “nel reato di minaccia l’elemento essenziale è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo” aggiungendo, per escluderne ogni neutralità , che ” l’espressione (“non sa chi sono io” ) colorava e riempiva di contenuti minacciosi la frase perché nulla ne circoscriveva il significato all'adozione di iniziative lecite”.
Ancora più incisiva la decisione della Suprema Corte in una recentissima sentenza, laddove censura comportamenti generalizzati che vedono gli uomini protagonisti di “apprezzamenti” fuori misura: “ ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa” continuando “se l’accusa e quella di essere una puttana o una zoccola non solo si offende gravemente la sua reputazione ma la pone in una condizione di marginalità e di minorità”.
Un potenziamento e una aggravante di genere che mette in sicurezza processuale la vittima.
Sarà bene, comunque, che si cominci a censurare, nel sociale, la portata di espressioni scritte o pronunciate poichè è necessario ripristinare, quantomeno, la “classe”, il buon gusto, decaduti a compiacimento di fornire “prova di colpevolezza” diffondendo una percezione negativa delle persone che si coinvolgono.
Ma “la classe è acqua” o siamo preda di una generalizzata esenzione di responsabilità; del genere; “ tutti colpevoli, nessun colpevole?”
Che cosa è un farmaco? Un insieme di sostanze con più componenti tra cui un principio attivo che è in grado di modificare una o più funzioni dell'organismo ed è usato in genere per curare, contenere e prevenire le malattie.
L’impiego dei medicinali, nell’ambito di un trattamento farmacologico, deve avvenire nel rispetto delle indicazioni terapeutiche che sono state previamente approvate dal Ministero della Salute.
Elementi riportati nella scheda tecnica dei medicinali autorizzati all’immissione in commercio e nel foglietto illustrativo (bugiardino) laddove si leggono posologia, modalità di somministrazione, controindicazioni.
Fin qui sembra tutto regolamentato e la “medicina” (intesa come quel rimedio rassicurante che le nostre mamme ci hanno somministrato per il nostro bene, con l’aiuto del medico di famiglia suo alleato/ stregone) sembra ancora essere quel rimedio e quella soluzione amara, ma necessaria, per rispettare e promuovere la salute, bene comune.
Oggi una coscienza collettiva più critica, unitamente all’accesso a una informazione, come dire, indipendente, solleva molti punti di domanda che coinvolgono anche rimedi universalmente riconosciuti come salvezza (dell’umanità) da malattie mortali e/o invalidanti come, per esempio, i vaccini obbligatori per i bambini.
Il rifiuto di somministrare i vaccini ai bambini, peraltro, porta alla conseguenza di dover sottoscrivere un dissenso informato; con tutti i rischi conseguenti alla assunzione di responsabilità a forte contenuto emotivo nell’operare tale scelta
La responsabilità circa effetti collaterali, anche gravissimi, viene dalla legge demandata ai medici; nonostante fonti istituzionali internazionali sottolineino le criticità dei farmaci; fomentando dubbi e perplessità sulla delicata materia.
Sul fronte della informazione, sugli effetti collaterali contenuti nel bugiardino, bisogna sottolineare, purtroppo, che solo quando risulta una evidenza non segnalata dalla casa farmaceutica scatta una precisa responsabilità diretta in capo alla stessa;
I fatti, poi, vengono in emergenza soltanto all’allorquando siano stati accertati stabilmente in sede giudiziaria.
I casi più eclatanti, tra i tanti continuamente in emersione, riguardano la sindrome di Lyell, conosciuta anche come necrolisi tossica epidermica: una patologia molto grave che, spesso, porta alla morte.
La particolarità è che la necrolisi tossica epidermica si contrae come reazione a seguito dell’assunzione di farmaci per la cura di malattie quali l’uricemia. Il composto chimico, ovvero il principio attivo, presente nel farmaco, risulta presente in almeno duecento ulteriori farmaci!
E’ emerso, ancora di recente, che pazienti affetti da morbo di Parkinson, che assumevano un dopamino agonista, avevano cominciato a soffrire di gravissime compulsioni al gioco d’azzardo e a sviluppare una gelosia patologica: a queste conclusioni è pervenuto uno studio dell’Università di Pisa, analizzando un campione di 805 soggetti, per monitorare gli effetti del farmaco.
Da rilevare che la Magistratura francese ha condannato una importante casa farmaceutica a favore di un paziente parkinsoniano che, a seguito dell’assunzione di un dopamino agonista (ropinirolo) aveva sviluppato una compulsione incoercibile per il gioco d'azzardo.
Sviluppando, ancora, una compulsione per il sesso omosessuale, subendo anche violenza e tentando il suicidio più volte.
L'azienda farmaceutica ha dichiarato pubblicamente che il farmaco poteva avere questi effetti, inserendoli nel bugiardino, solo nel 2006.
Nel mondo ogni anno si spendono più di 3 mila miliardi di dollari in servizi di salute; in gran parte finanziati dalle tasse dei cittadini.
Una cifra molto ingente che può deviare dal progetto di promuovere la salute delle popolazioni e il mantenimento e il miglioramento delle strutture sanitarie; favorendo ed agevolando, di contro, la corruzione ovvero quel sistema illecito che comporta una serie di azioni non sempre identificabili e il cui fine può anche toccare la manipolazione di informazioni sulle sperimentazioni cliniche.
Un mondo complesso e articolato in molte sfaccettature non sempre percepibili poiché non esiste una linea di demarcazione netta tra business, controlli e diritti costituzionali e dove i detrattori, imputando alle multinazionali un controllo sfrenato del mercato, arrivano a immaginare una azione mirata -da parte di gruppi farmaceutici - alla comparsa di nuove malattie.
Una base per una sempre maggiore espansione del mercato globale: una sorte di fidelizzazione preventiva
Una efficace politica di controllo antifrode e più Agenzie indipendenti del farmaco, non correlate all’ industria, potrebbero già togliere forza alle lobby internazionali.
La sottoscrizione del consenso informato è imposto dalla legge solo in pochissimi e specifici casi. Il resto è lasciato al rapporto di riconosciuta competenza del medico – ed all’aggiornamento professionale di quest’ultimo - e alla conseguente fiducia da parte del paziente.
La mancanza di questa relazione riconduce ad una barriera burocratica fatta di un rapporto impari.
I bugiardini sono sempre all’agguato ma una buona notizia viene proprio dal Ministero della Salute che, pare, voglia cominciare ad eliminare dal bugiardino il linguaggio astruso ed estremamente tecnico - accessibile solo agli addetti ai lavori - per sostituirlo con grafici comprensibili e semplificati alla portata non solo del paziente ma anche del medico.
Oggi, comunque, si deve registrare una mancanza di regole e di diritti.
Entri e ti trovi circondata da musichette sintetiche, scrosciare di monete, tra penombre.
Il fumo non è proibito. In salette accattivanti, donne, gli occhi vuoti, siedono come manichini. Quasi automi anestetizzati. Con in grembo ciotole di monete pronte a essere ingoiate. Da un inferno di schermi luminosi che vantano nomi adescativi: “morte venezia”, “halloween ”, “far west”, “cha cha cha”.
Il fenomeno è diffuso. Pericolosamente alimentato dallo Stato che, anziché combattere questa dipendenza -che si chiama ludopatia – ne lucra in maniera perversa; favorendone l’incremento.
Non altrimenti può valutarsi il naufragio della norma che veniva ad imporre la localizzazione delle “macchinette mangiasoldi” ad una distanza minima di 500 mt dalle scuole.
Il fenomeno sociale della ludopatia è grave.
Molto poco esplorato quello al femminile, al quale mi riferisco,: casalinghe, pensionate, disoccupate e madri di famiglia forse depresse, forse scoraggiate, forse socialmente svantaggiate e forse neppure rientranti nelle cifre elaborate da studi del settore.
Il femminile che vive in totale solitudine un vizio che nulla ha a che vedere con il gioco; perchè da gioco sociale tracima a gioco problematico; e, poi, a patologia che crea disagio, isolamento, vulnerabilità.
Con gravissime ricadute nella economia e nella etica familiare.
Il gioco si propone come una attività distruttiva che annulla la percezione del valore della persona per trasformarsi nella totale distruzione dei valori sociali e personali. Così che emergono - a esplorare questo ambiente sommerso- gravi problematiche legate alla prostituzione praticata per procurarsi liquidità.
Roger Caillois, riferendosi ai giochi elettronici, ha sostenuto “giochi che si basano sulla ricerca della vertigine; consistono in un tentativo di distruggere per un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico. Si tratta di accedere ad una specie di spasmo, di trance o smarrimento che annulla la realtà con vertiginosa precipitazione “ con una sintesi di valore straordinaria: “ uccidono letteralmente il tempo senza fecondarlo”
Lo Stato italiano, dopo averne combattuto l’illegalità e represso la clandestinità, è diventato, come dire, morbido socio partecipativo: già nella previsione di lucrare, con l’imposta sostitutiva, sul movimento finanziario che si muove ( l’industria del gioco in Italia ha un fatturato prodotto di 50 miliardi di euro e si posiziona al terzo posto, dopo Eni e Fiat) ma, poi, non recuperando l’iva sui proventi (6%) e non provvedendo ad investimenti nel sociale, con strutture di assistenza e recupero.
L’esercito di passivi automi, abbacinati dall’effetto allucinogeno delle “macchinette mangiasoldi”, sono un esercito di malati compulsivi; di cittadini con la coscienza personale, civile e politica addomesticata alle distrazioni illusorie, alle attività pericolose e devastanti; ossessive fino al punto di addormentare le coscienze rafforzando passività e disimpegno; una popolazione i cui diritti alla salute vengono sacrificati al profitto.
Ma rappresentano un comodo e quieto investimento. Uno strumento “facoltato” al finanziamento per i gruppi multinazionali che detengono le concessioni e per il bilancio dello Stato (che poi, paradossalmente, non introita l’iva; per un importo che potrebbe assumere, se incrementata l’aliquota, il valore di 10 miliardi di euro da destinarsi alle famiglie, alla imprese, alla cultura e alla sanità).
Resta comunque che valore costituzionale più sentito dalla collettività è il diritto alla salute, previsto all’art. 32; tale diritto si deve ricondurre a diritti soggettivi verso i quali lo stato è portatore di doveri.
E’sufficiente aver inserito il gioco d’azzardo nei servizi essenziali di assistenza, o permane una grave carenza, anche in funzione della prevenzione, che potrebbe percepirsi delitto contro l’incolumità pubblica?
E sotto quale voce lo Stato iscrive o iscriverà gli introiti: “tasse psichedeliche”?
“In Italia la corruzione ha assunto una natura sistemica" è quanto ha dichiarato il Presidente della Corte dei Conti, Luigi Gianpaolino, all’inaugurazione dell’anno Giudiziario, presentando un dossier raccolto dai procuratori regionali per documentare i pregiudizi economici che, nel 2012, si calcolavano in circa 300 mln.
Corruzione, frode e abuso sono i reati più ricorrenti segnalati nel dossier; reati capaci di compromettere il prestigio, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione e la stessa economia nazionale.
Gli ultimi avvenimenti radicalizzano e amplificano questo scenario portandolo oltre confine: un pasto internazionale.
La conseguenza di ciò è nella pressione fiscale -che ha raggiunto il 55%, persino sottovalutato e che posiziona l’Italia al vertice nel mondo, in fatto di gabelle- con importi introitati che hanno raggiunto i 330 miliardi - dal 2008 ad oggi, secondo dati forniti dalla CONFCOMMERCIO. Di contro un quasi azzeramento dei servizi sociali.
La povertà in Italia ha raggiunto livelli di guardia che non si registravano da anni e che. peraltro, regala al meridione un primato: quello della disoccupazione, questa già endemica.
C’è un legame fortissimo tra crisi economica e corruzione (secondo il rapporto della Transparency International -rapporto dedicato alla corruzione nei paesi europei-) che, ancora una volta, vede l’Italia ben piazzata anche in questa performance; atteso che la corruzione va di pari passo con deficit e debiti più alti.
Ma l’Italia è stata però fanalino di coda relativamente al recepimento delle convenzioni internazionali pure sottoscritte, sulla corruzione e sulla criminalità organizzata.
Un nutrito pacchetto di regole sanzionatorie che andavano e vanno dalla repressione della corruzione attiva e passiva di pubblici ufficiali, di parlamentari, di privati, di funzionari internazionali, di giudici e funzionari di tribunali, al traffico di influenze, attivo e passivo, riciclaggio dei proventi della corruzione e quelli contabili (fatture, falso in documenti contabili).
La recente, tardiva, legge 190/2012 ha, purtroppo, trascurato reati quali prescrizione, falso in bilancio e auto riciclaggio (rinviati nel tempo: quello italiano).
Ma, al di là delle analisi e dei tecnicismi, al di là delle ricette salvifiche proposte dagli chef della politica -sul cui risultato finale molti temono una dolorosa gastrite- , non tutti analizziamo un effetto che i matematici descrivono come caos deterministico.
Secondo questa teoria un evento come lo sbattere o meno le ali della farfalla può far evolvere la situazione atmosferica in modo radicalmente diverso e imprevedibile.
L’ “effetto farfalla” di un solo atto di corruzione potrebbe portare – porta- una ricaduta sulla vita delle persone.
Esseri umani -donne, uomini, bambini, anziani, malati, lavoratori- che debbono, sono - a conseguenza della“farfalla corruzione” - ignorati dal sistema e che subiscono, come tutti gli ultimi sulla terra, vessazioni nella sfera sociale, familiare, lavorativa e personale.
Un uomo perde il lavoro.
Un uomo perde autorevolezza.
Quell’uomo perde la stima o si flagella di disistima.
Quello stesso uomo non può garantire assistenza ai genitori anziani.
Quello stesso uomo non può garantire i bisogni dei figli, non può garantirne gli studi.
Quello stesso uomo non può neppure garantire un salubre sviluppo della propria famiglia e di se stesso.
Quello stesso uomo non può assicurare cultura, né uno svago.
Quello stesso uomo non può più gestire una rabbia sociale che comincia a serpeggiare e che lo coinvolge.
Quello stesso uomo comincerà a perdere la serenità familiare e poi la solidarietà degli amici.
Quello stesso uomo comincerà a perdere l’onore perché non potrà ripagare i piccoli prestiti e, poi, non potrà pagare tutti i debiti ( solo i ricchi possono accumularli con sufficienza).
Quello stesso uomo perderà la casa.
Quello stesso uomo perderà la salute.
Quello stesso uomo perderà gli affetti.
Forse perderà la vita.
Entrerà nel computo delle statistiche?
E l’ “effetto farfalla”?
In questo periodo il tema più dibattuto sembra essere l’incandidabilità di quanti hanno subito condanne.
I comitati dei garanti dei vari partiti stanno lavorando a “liste pulite” e formulano ripensamenti anche su candidature già annunciate.
A scanso di ogni equivoco, per il ” più pulito non si può”, emerge la necessità di non candidare chi abbia subito una condanna in primo grado o, ancor di più (fino a candeggiare e non solo non candidare), chi abbia ricevuto un rinvio a giudizio.
Capita che io sia stata querelata per diffamazione (originariamente per calunnia, poi derubricata) da un Giudice Onorario a seguito di un mio ricorso al CSM nel quale ipotizzavo essersi manifestato un comportamento negligente e superficiale, da parte di quest’ultimo invocando perciò il controllo disciplinare in virtù e in riferimento al punto 3 del sub capo c)- della LG 150 del 25 luglio 2005 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 175 del 29 luglio 2005)
I principi insistiti nel ricorso, richiamati con linguaggio tecnico, non lambivano certamente la soggettività né le attribuzioni acquisite alla personalità, poiché lo stesso si concretizzava nell’utilizzo di termini normativi legalmente definiti per esercitare il diritto di critica all’esercizio della giurisdizione, per esporre i fatti e le circostanze dei fatti, per sollecitare accertamenti in ordine alla ritenuta mancanza, nelle intervenute deliberazioni, dei requisiti di equilibrio, imparzialità e terzietà -come indicati dai Regolamenti del CSM .
Invero il Giudice Onorario, titolare di cinque procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo da me notificati ne aveva provveduto alla revoca senza indagini di merito, senza prove documentali depositate dalla opponente, con l’ulteriore aggravante della condanna alle spese a mio carico, pure decidendo sulla sola competenza in assenza di sentenza sull’an: insomma beffa e danno.
Ho ritenuto, ritengo, debbo ritenere, che la querela avesse tutte le caratteristiche di un atto ingiustificato e sovrabbondante ma, ciò nonostante, correttamente e convintamente, presente ad una udienza in trasferta, ho dichiarato, in piena coerenza, di rinunciare espressamente a ogni eventuale prescrizione.
Sembra che la sentenza sia stata a me sfavorevole e, quindi, condannata per diffamazione (dico sembra, poiché il provvedimento non è stato ancora notificato né a me né al mio difensore, talchè, peraltro, non sono in grado di riferire dettagli della motivazione).
Agirei, comunque, di nuovo nell’azione proposta perché credo che sottrarsene significherebbe denegare in radice i meccanismi di controllo che ancora rappresentano le garanzie del percorso democratico e dei principi difensivi protetti dalla Costituzione; quale ne sia l’esito.
Ma, se fossi stata folgorata da un irrefrenabile desiderio di essere “candidata”?
La questione morale viene brandita come una spada e sembra stemperata in tanti rivoli; la giustizia appare discontinua e malata; potrebbe succedere che una eventuale elezione sarebbe fonte di disagio per il mio partito potendo essere bersaglio di detrattori (semmai in una arena permeata da particolari esigenze e tematiche etico/morali).
Un incubo, dove i detrattori inferociti mi butterebbero in faccia la gravità della condanna e cercherebbero di snaturare il mio impegno e mi additerebbero al pubblico ludibrio.
Potrei, forse, in quel contesto opporre che le mie denunce subiscono una sorte diversa o addirittura di archiviazione preventiva? No! Non potrei perché “cantano” le carte. A volte, anche quelle buone per il riciclo.
C’è da essere d’accordo con un leader, impegnato nel controllo serrato in corso, che dichiara: “noi non accettiamo tribunali improvvisati, i nostri codici etici sono più rigorosi delle leggi dello stato”
Uno zelo spalmabile secondo le circostanze e i protagonisti tra questione morale e opportunità.
Non sono candidabile!
Bok Dong e le altre trecentomila
Sono state oltraggiate due volte queste donne, giovani , adolescenti. Qualcuna ancora bambina.
Strappate innocenti e inconsapevoli alle famiglie. Con l’inganno e la brutalità degli occupanti. Con la logica antica dell’asservimento sessuale. Deportate e mandate a lavorare nei bordelli. Umiliate e ferite nel corpo e nello spirito. Alla mercè dei soldati, alla barbarie dei padroni, all’insulto della profanazione dei diritti umani.
Si disse che furono volontarie lavoratrici per i campi e le fabbriche. Invece, furono “donne di conforto”.
Sono state oltraggiate dalla storia perché è stato tardivo il riconoscimento degli abusi perpetrati nei loro confronti. Così come sono state tardive le scuse del governo nipponico arrivate dopo anni di ostinata negazione dei fatti, rifiuto di aprire gli archivi. Solamente dopo tiepide ammissioni di ex ufficiali coinvolti.
Il riconoscimento delle responsabilità belliche in estremo oriente è stato un percorso lungo e non scontato; svelato intorno agli anni novanta.
Si è concretizzato con il doveroso sentimento di profonde “scuse e doloroso rimorso” espresso alle donne sudcoreane - maggiormente coinvolte – e alle donne di altre regioni asiatiche dominate dall’impero del Sol Levante, tra il 1910 e il 1945.
Ma la formalizzazione del risarcimento riconosciuto - dal governo di Tokyo al governo di Seul - è marginale rispetto alle scuse pretese con grande fermezza per ripristinare la verità storica.
“per non dimenticare”: come ha rivendicato, per tutta la vita, Bok Dong.
Per non dimenticare. Noi non possiamo né vogliamo dimenticare.
Siamo ormai tutti operatori e vittime della corruzione.
La nostra libertà è ormai certificata da atti che declinano da una morale o dal piano di valori, almeno naturalistici.
La corruzione diventa così una malattia incurabile e corrompe ogni altra vitalità: mi riferisco non solo a quelli che la praticano in via diretta ma, anche, a quelli che guardano praticarla senza impedirla, senza additarla, senza isolarla, senza censurarla.
I corrotti lungi dall’avere riprovazione sociale godono, oggi, di una sottile invidia al loro prestigio criminale; prestigio che serve per continuare l’opera di distruzione della struttura sociale ed economica della collettività; anche esercitando influenze.
Non è più un metodo di sopravvivenza –per certi versi amaro e drammatico- è l’ordito sul quale si delinea la società; senza, ne cadrebbero, ormai, i presupposti, le ragioni, gli scopi.
Di corruzione in corruzione, la macchia di tentazioni si è allargata e non solo non ci rendiamo conto di respirarla come l’aria, ma la vediamo istituzionalizzata senza percepirne sulla pelle la portata e, soprattutto, la mortalità.
La corruzione non ti fa sedere a tavola, ma ti fa mangiare di nascosto.
Ed è un paradosso che senza la corruzione non ci sia più libertà. Libertà di aspirare a un posto di lavoro, a poter essere un paziente dirottato in studi a tecnologie avanzate, poter esercitare il diritto di cittadinanza in ogni sede e circostanza.
La libertà della corruzione.
E i corruttori sono i nuovi e soli liberi.
La pasta italiana, un prodotto di eccellenza nel mondo, non è lavorata con grano italiano, ma è frutto di miscele con provenienze estere di cui il mercato è controllato da spregiudicate multinazionali che impongono prezzi al ribasso; a discapito del grano, degli agricoltori e della economia italiana.
Si calcola che, negli ultimi anni, ben 685.000 ettari, una volta coltivati a grano, siano oggi incolti; o destinati ad attività produttive fortemente inquinanti.
La fiducia dei consumatori -che legge sulla pasta venduta ai supermercati “made in italy”- è stata messa a dura prova in questi giorni per lo scandalo dei tortellini “alla carne di cavallo” e torna ricorrente la scarsa informazione che investe il settore.
I controlli dovrebbero lavorare sulla tracciabilità degli alimenti in tutti i suoi passaggi; quindi con una consulenza scientifica, indipendente, sulla sicurezza degli alimenti a seguito di segnalati allarmi sui rischi legati alla catena alimentare.
É notizia di questi giorni, legata ai tortellini “alla carne di cavallo”, che la CODACONS abbia intenzione di presentare un esposto alla Corte dei Conti e alla Procura della Repubblica al fine di vedere accertato il corretto utilizzo di fondi pubblici da parte di un ente istituito per tutelare i consumatori europei (EFSA - autorità europea per la sicurezza alimentare).
“La mancanza di regole alimenta le mafie”, denunciano le associazioni di consumatori.
In un ristorante che presentasse l’elenco dei prodotti locali in uso nella cucina - con rigorosa indicazione dell’azienda e delle peculiarità e degli ultimi controlli – potrei, serenamente, insieme ai turisti, scegliere “spaghetti alla puttanesca” fatti con grano “tutto” italiano, tortellini di “mamma concetta”, al ragù senza concentrato cinese.
Chiedendo il “caciocavallo” potrei avere “il monaco”, proprio quello prodotto sui monti lattari.
Una utopia?
Altrimenti ci ciberemo di tortellini alle sanguisughe, agnolotti al glicole di etilenico - che non è neppure un dimagrante-, pesce al nitrato di potassio e, per finire, un “ottimo” vino, ottenuto con la fermentazione di zuccheri di natura variegata, diversi da quelli dell’uva (una pratica ammessa dalla UE!).
la casa di Jessica e l'applauso
Ho conosciuto Jessica: “la casa di Jessica non si tocca”.
È stato ad un convegno tenuto nell’auditorium del Tribunale di Napoli.
Il tema: ambiente, dissesto idrogeologico, edilizia, reati ambientali, condoni, utilizzo dei beni sequestrati alle mafie.
Ricco della presenza annunciata di personalità amministrative locali e statali, gli interventi del ministro dell’ambiente, del sindaco di Napoli, del governatore della regione che non ci sono stati perché, evidentemente, giustificati dalla concomitanza con altri impegni istituzionali.
Ho seguito le diaspore tra due amministratori che sembravano aver trasferito in Tribunale una seduta consiliare.
Di particolare interesse, l’intervento del dott. De Chiara, titolare, per molti anni, della sezione per reati ambientali e ora Procuratore Generale a Salerno, il quale ha evidenziato la necessità di operare utilizzando risorse umane e logistiche già esistenti sul territorio (nello specifico il genio militare) senza attendere leggi con coperture finanziarie improbabili e inesistenti, stante i deficit che si registrano nelle casse.
Ho sentito un vociare; poi ho visto una signora, con il marito e Jessica. Jessica, una fanciulla disabile.
Chiede di intervenire per porre una domanda, sulla vicenda di demolizione della casa abitata da Jessica, al magistrato presente al convegno, che ne aveva firmato l’ordinanza; demolizione eseguita con 600 unità tra polizia e addetti.
Dopo un momentaneo disorientamento, il moderatore del convegno si è affrettato a sottolineare la modalità della richiesta, la sua irritualità, e a censurare, finanche, l’utilizzo di minori per tale pubblica sortita; fino all’allontanamento gentile, fermo, quasi premuroso, da parte della polizia.
Tra il momento della protesta e quello dell’intervento è trascorso un interminabile tempo, quasi teatrale, e durante il quale si è consumato ogni dovere: quello di una risposta, forse, ma, soprattutto, il dovere di un applauso di solidarietà per la vicenda umana.
Un tempo perso e non più giustificabile; una pausa troppo lunga, imbarazzata: unica reazione della platea. Ho avvertito un grande disagio e turbamento.
Pausa.
Alla ripresa dei lavori il procuratore dott. Donato Ceglie, con garbo e signorilità, ha espresso la sua solidarietà alla vicenda umana della famiglia e di Jessica.
La fantasia ci può portare a porre altri punti di domanda ai partecipanti di quella tavola rotonda; alle istituzioni e a quanti, tanti, troppi, che non dovrebbero permettere che intere città sprofondino nel fango, che interi boschi brucino, che scuole crollino, che strade vengano costruite con rifiuti tossici, che ci siano discariche nei centri abitati o in prossimità di essi, se non in terreni agricoli, o che venga attentata costantemente la salute pubblica.
Che si possa far passare nella indifferenza generale la totale assenza di un piano di risanamento del già esistente, che ci crolla addosso, progettando, al contrario, costruzioni selvagge, ponti, o sventrando montagne .
No! Scrivo soltanto per quell’applauso mancato; per quell’atto umano, doveroso e gentile.
Scrivo per Jessica, una ragazza che sembra voler afferrare il mondo impossibile con un movimento che si arresta solo nello sforzo di voler concedere un sorriso; sorriso che accende occhi immensi e trasparenti.
avvocatura donna e discriminante
Oggi, “la nozione di etica professionale dell’avvocatura è da intendersi estesa al di là delle singole codificazioni deontologiche, in quanto comprensiva di disposizioni contenute nelle normative sui diritti fondamentali, dell’esperienza giuridica, delle convenzioni sociali e ‘degli aspetti etico-morali che emergono dal sostrato culturale di un sistema sociale’” (G.C.Hzard – A. Dondi, Etiche della professione legale, 2005), talchè “il bilanciamento di questi diritti e doveri costituisce l’essenza dei problemi dell’etica professionale dell’avvocatura” (A. Marino Marini, Diritti umani ed avvocatura, 2009)
Voglio qui riferirmi, in questa breve nota di fine d’anno, alle tecniche di linguaggio e comportamentali che operano una discriminante sociologica nei confronti delle donne avvocato nell’ambito forense.
Già l’avv. Annamaria Alborghetti (prima Presidente di una Camera penale in Italia), nell’intervista rilasciata al Corriere del Veneto corriere.it del 2 marzo 2011) sottolineava episodi della sua professione, sintetizzando efficacemente: «Trent’anni fa nei tribunali ci si rivolgeva alle donne in toga soltanto chiamandole "signorina" o al massimo "dottoressa", mentre un giovane neo-laureato, anche alle prime armi, veniva sempre definito "avvocato". I colleghi maschi poi ti trattavano con sufficienza o si sentivano in dovere di corteggiare, invitare a cena. Una volta poi, le donne si occupavano solo del diritto di famiglia, le penaliste erano pochissime» e, ancora «Acquisire credibilità non è stato così facile e immediato. Ricordo il primo processo in Corte d’Assise, il giudice praticamente ascoltava solo i colleghi maschi, non dava retta ai miei interventi. Ho dovuto impormi con aggressività per essere ascoltata».
Residui di tali comportamenti si rivengono anche odiernamente.
Ho raccolto, tempo fa, una voce che riferiva di una avvocato che non avrebbe avuto diritto alla liquidazione della parcella, contestata in sede di opposizione, poiché il legale di controparte sosteneva che la collega era stata già “pagata” dalla relazione sentimentale intercorsa con il suo ex cliente. Contestazione che appare, ancora oggi, come uno sfregio da “caserma”, portato a una donna.
Nessun avvocato donna, viceversa, sosterrebbe o sostiene le ragioni di una parte con modalità tali da coinvolgere giudizi, espressioni, “presentazioni” della figura della controparte suscettibili di essere considerate offending.
La sociologia della comunicazione, richiede la vigilanza della governance dell’Avvocatura e, anche, una più vigile attenzione da parte della Magistratura; perché linguaggi e comportamenti scomposti non diventino linguaggi di genere e di uso corrente.
Invero il linguaggio (e il comportamento) potrebbe diventare uno strumento irragionevole e illegittimo per raggiungere obiettivi di altra natura o prestarsi a coperture o favoreggiamenti.
Non vado oltre, perché potrei scivolare su vicende personali all’esame delle Corti Civili e Penali, nonché disciplinari.
“ ... la definizione di popolo non è caduca : gli uomini tra i quali si vive comunemente possono venire dal popolo,ma non sono il popolo. Quando incontri uomini fra i quali ti sembra che la vita abbia un altro peso,
uomini che considerano la sopportazione del peso come la comune sorte umana, che accettano anche il peggio con animo tranquillo e non stanno a meditare troppo neppure sulla morte, uomini nei quali la parola è più vicina al sentimento, il pensiero più vicino all’azione, uomini il cui giudizio ti insegnerà la realtà punto su punto, la cui mancanza di dialettica ti sorprenderà, nella cui cerchia gli eventi del mondo ti appariranno meno confusi, e più sensata perfino la sofferenza, nella cui compagnia ti sarà più difficile affermare te stesso e collaborare che non conquistare la loro simpatia, uomini che ti faranno spesso sorridere per la loro credulità e ti umilieranno con la loro spontanea signorilità, uomini fra i quali, sentendoti a casa tua e forestiero insieme, provi una sorta di nostalgia per una situazione spirituale che non ti è estranea, ma che tuttavia è più inaccessibile del paradiso perduto: sappi allora che sei tra il popolo. “.
In tal modo Hugo Von Hofmannsthal si esprimeva sul significato di popolo. Contro chi ne aveva falsificato e malmenato l’autenticità e che, con elucubrazioni cerebrali portavano, allora come ora, la società verso l’abisso; travisandone, a proprio utile, le fecondità storiche senza comprensione, senza sfumature, senza capirne le domande, senza saperne di risposte. Ignorando l’essenza stessa dell’anima popolare.
Ma, il popolo rimane quello numeroso, vicino, carnale , spontaneo. Quello per il quale la parola, sempre più smarrita, proprio perché smarrita, è pur sempre più vicina al sentimento.
Tanti luoghi comuni su Napoli e la sua gente; tanto da farne un trompe-l’oeil.
Inconsapevolmente tutto si infetta come una virosi nella quale l’agente infettante è l’immagine stessa del degrado, dell’apatia della indifferenza. Della teatralità svuotata del gesto significante; divenuta una gestualità informe, senza contenuti, senza vibrazioni.
É negli occhi della gente, nelle saracinesche dei negozi abbassate, nello spettro della disoccupazione incalzante.
É nelle aule dei tribunali, dove i rinvii sono, molte volte, oltre il termine di una vita media.
È nei rapporti di forza sbilanciati, nelle sudditanze.
È nella inerzia fine a sé stessa; che è l’inizio di ogni oscenità destrutturante.
È nella logica del profitto che attraversa la socialità come una eruzione simbolica, per una morte annunciata: la nuova rassegnazione all’impotenza nel modificare la vita.
È nel prestigio criminale -a tutti i livelli- che avanza e che ruba rubando spazi vitali. Che rende i soggetti “socialmente estranei”, quindi inoffensivi e ininfluenti. Che gestisce l’emergente miseria dei nuovi poveri come una nuova creatura da custodire, da alimentare con il nuovo potere: una mammella da cui succiare per una realtà da mantenere, ampliare, replicare all’infinito possibile.
Tutto si è amplificato: l’evento superato dalla rappresentazione negativa dell’evento stesso.
Il fenomeno dei rifiuti prende un’altra forma: l’emergenza miseria si organizza.
Vengono invase piazze dove –apparentemente improvvisati- si organizzano mercati domenicali e infrasettimanali: extracomunitari espongono oggetti prelevati direttamente dai cassonetti, per un nuovo florido mercato che, al termine, inonda il selciato, le aiuole di rifiuti dei rifiuti.
La esortazione “aiutaci a tenere Napoli pulita” è oscenamente dissacrata con il prelievo di quel che serve lasciando, poi, in strada, il resto del rifiuto alla portata di un altro riciclatore.
L’altro giorno ho visto una anziana, ricurva sul contenitore di una farmacia, svuotarlo direttamente sul marciapiede e, alle rimostranze di un passante, tuonare maledizioni come un autentico personaggio dei Miserabili; gli zingari, poi, sono abilissimi nel saltare direttamente nel cassonetto, usato come bancomat del rifiuto istantaneo.
É nella logica del profitto, dell’economia e del mercato a tutti i costi, che si trasformano le persone con le loro potenzialità: da soggetti ad oggetti geneticamente modificati. Imprigionati nella ingiustizia sociale e nell’assenza di democrazia partecipativa. Imprigionamento che genera il senso di perdita e la rinuncia all’autostima e che può portare a gesti estremi. Rendendo finanche incapaci di ri-pensare l’approdo ad un nuovo possibile;
Un autentico disastro dove non vi è nulla da negoziare. Dove non c’è una partita da giocare attraverso una cultura di liberazione dagli orizzonti di un sistema economico; più che mai proteso a proteggere se stesso.
Se la politica è uno scambio -o almeno risposte possibili allo scambio di energie- credo che la politica delle istituzioni vada modificata, vada impastata di partecipazione autentica, vada vivificata degli entusiasmi, vada lievitata dal fare creativo.
Metafisica? Sì! Come tutto quello che si respira da queste parti tra teatri e rovine, tra attese e delusioni, tra speranze e rassegnazioni, tra la morte e la sua costante rappresentazione.
Il “mondo Napoli” –che ,poi, è il mondo di ogni città- deve parlare e confrontarsi; ascoltare e programmare, deve essere presente nelle piazze, deve immaginare il mutamento dei rapporti sociali, deve agitarsi in una rivoluzione culturale.Responsabilmente coniugando lavoro, qualificazione, progetti, economia, artigianato creativo.
Facendo, dei rifiuti, l’oro di Napoli con una capillare e gestita raccolta per il mezzo di figure professionali che garantiscano vigilanza sul territorio ed un riciclo creativo “made in naples”.
Contando, per tanto, sulle competenze delle eccellenze nazionali nel campo delle arti, della moda e delle scienze.
E non si può fare rivoluzione e stare nel palazzo: fuori c’è il sole.
Le interminabili attese di un bus, di un treno, della metro: spezzoni di viaggi che ti fanno andare e poi tornare. Stremata al pensiero del giorno dopo uguale (speriamo), perché la fine del viaggio sarebbe un altro itinerario.
La sorpresa di un essere umano, un giovane uomo, dottorando, con il quale scambi un vero discorso in attesa del n. 8 che ti porta alla stazione. Ti parla senza intrusioni, ti segue sul bus, un cenno di intesa per un posto libero che ti indica e ti accompagna, per un breve tratto, alla stazione. Ddelicatezza non formale, non scontata: grazie!
Poi, l’attesa di travestirsi per il rituale accesso alla rianimazione; dove esseri umani brancolano nel buio della loro fisicità deturpata, collettivamente, all’unisono: un unico corpo, battente, martoriato.
Nel ritardo di indossare mascherina, camice, guanti e sovrascarpe avverto lo smarrimento nei tuoi occhi: “perché non c’è? dov’è ?”. Così esprimi quel momento vitale che ti collega all’esterno, alla trepidazione, al ritorno.
Mi commuove la tua fragilità rocciosa e friabile. Le tue ferite somigliano ad uno scudo dismesso dopo la battaglia. Mani pietose ne intrecciano la trama di ferro lacerata dal fendente.
Che dire di chi ti rinnova ogni giorno la presenza e ti accompagna, ti sollecita, ti spinge ad informarla domani e, poi, domani. E ti chiede: “e tu come stai?”.
ultimo aggiornamento/pubblicazione 10 gennaio 2019