ero una farfalla nata in primavera  

 

 

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ero una farfalla nata in primavera

 

 monologo

 

 

(Ho provato ad armare le vittime di parole che la cronaca non potrà mai restituirci.)

 

 

 

Ero una farfalla nata in primavera.

Sentii,  al primo respiro,  lodore  inebriante  di torte pasqualine da infornare.   Tra profumi  di millefiori e   vanillina. Svenni. La puerpera spaventata  dalla mia apnea mi frenò  il piacere di sperimentare sapori.

Era, ancora, il tempo della pupa o  ero già  farfalla?

Il mondo già lo indovinavo. Una alchimia che avrei voluto subito sperimentare. Come una piccola indiana curiosa. Indecisa, tra  danze  e   sogno.

Ricordo i pensieri: “Sono stanca abbastanza. Ora  torno tra le mie colline e  i fiumi caldi. Qui fa freddo,  e non vedo il sole.”.

Infatti, era l’imbrunire.

Mi bagnai  nelle parole. Cantai nel delirio febbrile e cantai silenziosa. Per inventare favole. A raffica, come un caricatore pieno.

Appena potei, saltai su di una sedia.

Inventai dialoghi  cambiando voce ai personaggi. Ora striduli o suadenti o gutturali. Con finestre aperte sul mare e sui viaggi. Arrivi e partenze. Poi,  padroni e schiavi che  lasciano suoni e pezzi di storie, di passioni e  di dimenticanze. Valori e vergogna. Umiltà e alterigia. Tutto confuso nelle ossa più che nella storia.

Ero una  indemoniata  di storie e di immaginazioni.

Una indemoniata  che si placava soltanto al destino compiuto dell’ultima eroina. Alla battuta suggerita o  strappata  agli attoniti astanti.

Erano loro, gli adulti,  la mia ispirazione. I protagonisti di storie  strambe fatte di sentieri che si diceva fossero presidiati da demoni.

Così, il cavaliere spavaldo era disarcionato dal fedele sauro. Solo quella volta, su quel sentiero. Da elfi  di una foresta intrigante.

Ma, anche, storie vere; drammatiche e comiche.

La vecchia  voleva  morire annegata. Si gettò nel fiume, ma i vicini la salvarono.  Fu portata davanti al camino, per asciugare le ossa. D’un tratto la porta di casa fu aperta  per una   visita di conforto e lei urlò: “ Chiudete quella porta! Maledizione! Mi volete forse uccidere? ”.

Mi raccontavano la vita degli altri. A volte mi bastava ascoltare, per intrecciare storie.

Ma non ero soltanto  una sognatrice.  

Mi piaceva il lavoro fisico in campagna. L’odore della terra mi esaltava.

Lunghe,  solitarie,  zappate a zolle aride che,  come per magia, diventavano  umide. Vive e piene di umori. Aromatiche.

Mi impegnavo nella vita con una devozione che sembrava santità. Disposta all’amore nella missione periferica. Curiosa di emozioni potenti e di consolazioni.

Ricordo il giorno che lasciai alle spalle la mistica suorina che volevo diventare. Fui richiamata dall’odore del mare e dagli schiamazzi  fanciulleschi. Dai palloni che schizzavano in porte improvvisate di stadi. Soleggiati e profumati  di oli  ambrati e  rose di maggio.

Oh,  profumo di cisto tormentato da una bellezza breve e brillante della vita di un giorno colorato!

Per ore cullavo la bimba. La madre tra le onde benediceva la sapienza e il bel canto della crocerossina con le treccine. Un cauto pizzicotto,  poi ancora un altro,  mi avrebbero consentito  di richiamare l’attenzione. Dopo ore, tra  il rumore del mare in sottofondo e ninna nanna immaginate.

In quel desiderio di essere libera si arenò la mia cattiveria. Ma avevo incominciato a prendere conoscenza  di un mondo contrario alla libertà.

Ero una farfalla che si accorge della rete solo quando  la sua prospettiva è irrimediabilmente rigata da opache strisce orizzontali e verticali.

Il mondo adulto,  corrotto da troppi sospiri  attrae. Il mondo  che  non conosci e non puoi decifrare. Guardi,   ascolti,   ma non comprendi. Come gli adulti non ti sanno comprendere.

Sentivo  il richiamo polveroso  delle scene. Odori di muffe e sudori. La  vita  degli altri che parlano per bocca tua. E tu ci metti allegrezza e patimenti e quelle profondità che ti lacerano. Che  avverti, ad una ad una,  nelle fibre.

Una febbre! La sera scoppiavo a piangere per un nonnulla. Mi rifugiavo nella mia stanza. Dopo lo sfogo scoppiavo  a ridere della mia debolezza. Osservavo tutti gli oggetti che avevo  trasformato in lacrimatoi. Mi dedicavo a qualcosa di fisico. La fatica  per riposarmi. Per concedere una tregua a pulsioni, quasi dolorose.

Ero l’adolescente che  desiderava bere la vita come aveva  bevuto il latte  di vaniglia.

Ma la vita è lastricata di lotte di sangue. Non se ne vede il porpora, appena dopo la ferita.

Ero una adolescente anomala. Dopo le lezioni si andava in cantina a sentire la musica. Le smaliziate invitavano le quasi bambine, non ancora donne.

Io, ero tra queste. Sgamata dall’odore  di bucato che mi persisteva addosso come una condanna.

Si annusavano e mi annusavano. Perché  noi sentiamo i nostri odori. Io, ero,  quasi, un giglio.

Così mentivo, sapendo di mentire. Fingevo dolori mensili che non avevo e loro  passavano al contrattacco. Un altro gioco: “uno, due,  tre! … tutte giù, le mutande, al tre!

Era un gioco innocente. Un bisogno di specchiarsi e riconoscersi donne in erba.

Forse, i maschi  sono più esposti. Loro e le loro macchinazioni, con le quali sbaglieranno la metrica della vita.

Le donne selvagge, quelle che sono apparentemente composte - e che da sole ridono di se stesse -  giocano nel terreno sicuro dello scherzo liberatorio di energie  primordiali e misteriose. Senza segreti si librano in volo. In attesa di atterrare  sui futuri nidi.

Gli scherzi esplodevano improvvisi. Donne  che confessavano l’amore e la trepida attesa, dopo il primo bacio all’amato. Emozioni e sensazioni si mescolavano e iniziava il rituale.

Non comprendevo le  rincorse tutte contro una.

Tra risate e urla di finto timore. La beneficiata dall’amore che andava condita. Un pizzico di sale tra le gambe.

La sapienza necessaria all’amore eterno con  l’ironia di  un tempo umano e speranzoso. Spaventosamente  breve.

 

Arriva un tempo che la sperimenti quella domanda prepotente di prendersi per mano. Occhi negli occhi. Quante  hanno coraggio di dire: “lo voglio! … perché lo desidero … perché è scattato un allarme … perché  la mia carne mi comanda di cedere a tutte le lusinghe e di svestire i sogni”.

I sensi offuscano per glorificare la dea dell’amore. Le resistenze diventano deboli e i desideri  non si possono dissuadere. Sono pronti! In un agguato di domande d’amore. Anche  di turbamenti sleali.

 

Dopo brividi di primavere precoci, di immaginazioni,   di amori  costruiti sulla  insistenza dei  sogni,   lo incontrai e riconobbi la fatalità.

Prima ancora della fisicità che confonde. Della voce che incanta. Dei colori che esplodono. Degli odori che attirano. Della vergine pronta all’altare della fertilità.

Ti scrivevo –anzi, riscrivevo-   quello  che avevi  carpito dalla mia intimità del sentire. Dalle parole che, a volte, erano sgorgate impure o  scapestrate o maliziose a ricordare, alla donna misurata,  la  fanciulla  curiosa, fragile e forte, piccola e grande insieme. La fanciulla  che si fa domande impertinenti,  fuori copione.

Ti raccontavo  che andavo al fiume, all’alba, a lavare i miei piccoli stracci sulla pietra levigata.

Scrivevo e sentivo, in sottofondo, il tuo respiro. Anche, il freddo della corrente e il verde delle acque che scorrevano.

Scorrendo verso la foce si coloravano di ignoto.

 

La dipendenza sensoriale,  come una droga,  si insinua anche quando gli uomini si servono di  diverse  spacciatrici di emozioni sul mercato.

La corresponsione è vitale. Con la madre. Che avverti che in qualche modo ti  rifiuta. Che ti giudica prima di amarti. O ti ama senza giudicarti. O ti giudica e ti ama comunque. La madre che ti assolve subito. Ancora prima di ragionare intorno all’amore. Tra conflitti da fiumi di parole.

Sentita ma non  ascoltata, l’oscura  condanna vomitata  e sussurrata come una premonizione, un avvertimento, un maleficio: “ l’amore di letto fa dimenticare l’amore di petto ”.  

 

Dapprima ero confusa,  poi  cominciai a pensare con lucidità: “ sì! mi sposo ...  me lo chiede con insistenza e l’amo di un amore senza disperazione, appagato ... posso esplorare il campo contrario sminando  il cammino, con pazienza e sorrisi ... nulla mi spaventa ... sono una viaggiatrice di sogni. ”.

I sogni amano carcerieri? O il carcerato  sogna una immensa prigione di  libertà?

 

Nella nostra casa tutto era un progetto intrigante. Esplorare e camminare a fianco, senza perdersi mai di vista. Una oasi dove toccarsi, odorarsi, esserci.

Ci ritrovavamo la sera. Nel tempo, nel luogo,  pieni  di promesse leggere, mantenute senza affanni. Pieni  di sguardi fiduciosi. Pieni di un vinello leggero che volevamo assaggiare. Pieni di un libro appena letto. Pieni  di un film da non perdere. Pieni della promessa per  una escursione, rimandata da troppo tempo.

Così mi prendeva l’ansia del ritorno a casa con dosi massicce di  adrenalina. Mi serviva poco tempo per fare tutto. Era il mio segreto. La sfida d’amore.

Incontrando  vecchie o vecchi amici mi  trattenevo a parlare. Ascoltando, a volte, di  disagi familiari o di  passioni bruciate da infantilismi. Disagi, passioni che logorano, che invecchiano; ricacciando nelle antiche colonie che si sono abbandonate.

Non ero  brava a dare  consigli estemporanei.

Sapevo, però, che potevo svestirti di ogni delusione. Come di un abito scomodo.

E tu, invece,  insistente,  mi chiedevi di te e di me.

Ti parlavo, allora, delle costruzioni di edifici, di  impianti, di  fogne, di materiali naturali, di arredi, di luci e di giardini pensili da curare. Di una casa sana.

Ti parlavo dell’amore mai scontato. Ti parlavo  dell’amore pietoso. Ti parlavo dell’amore che  si ferma e ti aspetta. L’amore che  ti incoraggia e ti sostiene. L’amore che ti scuote e ti esorta. L’amore, il mio amore, che ti sorrideva.

Ti narravo una trama  di attese possibili. Con te guaritore e stregone, insieme.

Ti raccontavo che noi donne ci narriamo.  Gli intrighi della nostra mente sono  momentanee installazioni della fantasia. Che smobilitiamo per tornare alla solidità di roccia. Il  nostro amore è l’ Everest  che scaliamo un poco ogni giorno. 

 

Ti appropriavi delle parole masticandole come veleno. Ti appropriavi  di un forziere. Svaligiando  casseforti che non ti appartenevano.

La  verità della violazione indiscreta  uccide  ogni giorno. Disegnando le sue intenzioni inesorabili. Sfilacciando la tela a due voci.

La tiepidezza non appartiene all’amore. L’amore  si alimenta di fuochi. La passione senza parole infuocate è una cenere fredda e grigia. Una cremazione anticipata da consegnare  al nulla.

 

Eri distratto.

Mugugnavi. Mi osservavi. Quasi mi soppesavi. Prendevi  le misure dell’aria  che respiravo o  che muovevo.

I gesti di sempre sembravano macerati in  melma luminescente. Che lascia  orme gigantesche. Che si riassume in uno sputo, in una eccitazione  che esplode in uno stato febbrile. 

Aprivo le braccia. Non mi accorgevo che avevi sbattuto  la porta dell’amore. Senza ripensamenti.

La cena era più fredda alla luce della luna infeconda che si ostinava  a restare sulla scena,   ormai smontata.

In ogni uomo si nasconde un  patriarca; all’agguato, un censore di presunte libertà.

 

Oh, sì!  Sono una bambina! Corro nel giardino.

Oggi  voglio raggiungere quei rami lassù. Voglio scorgere un nuovo  cammino e respirare l’aria più vicina  al sole. Voglio guardare il mare. Voglio sapere se le nuvole  disegnano da sole paesaggi e animali e figure che si stagliano nei contorni infiniti della mia fantasia. Voglio assaggiare un soffio di solitudine,  per conoscerne  i misteri e i pensieri. 

Ora, un richiamo brutale. Scendo scorticandomi le ginocchia. Le mani sanguinano. L’uomo mi è estraneo. Non è mio padre! Lui mi avrebbe teso le braccia e aiutato a scendere. Tra calore e profumo di lavanda inglese e mandarino. L’uomo è un orco turbato da solitudini luttuose. Mi assesta uno schiaffo ordinandomi di rientrare immediatamente in casa. Di coprirmi  con la decenza che anche le bambine devono  rispettare.

Sono casta tra vigne ubriache. Mentre bevo  succhi di melograno.

 

Eri ombroso. Quasi chiuso tra foglie di un bosco. Ti intravedevo. Non accettavi il gioco. Di cercarti,  fingendo di stanare un folletto dispettoso che si nega alla vista.

Ti lamentavi della tua dipendenza da me.

Un pensiero strano. Estraneo a noi. Il  cinema era una tua scelta. Tuo, il  cibo che desideravi. Tuo, il riposo che richiedevi. Tuo, il silenzio dei tuoi segreti. Tua, la  disposizione di me. Tuo, il tempo mio e tuo e quello nostro. Il tempo deciso invocando l’armonia di astri benedicenti. Una corsa, un tuffo,  una canzone. Mio, solo il tempo della curiosità. Da sfogliare. Come un buon libro.

La compassione per gli  altri mi tornava prepotente. Per i discorsi che coglievo  per strada, negli uffici, sui   tram, nei bar.  Assorbivo suggestioni per il possibile  di una vita srotolata in un istante o  in un corto  segmento.

Volevo essere uno sciamano. Saper predire il futuro leggendo  foglie di palme o voli di uccelli. Raccontare di  antiche conoscenze  e di misteri. Al visitatore trepidante per l’ansia di sapere sui dolori che l’aspettano, sulle malattie che teme. E sulla felicità  che desidera,  pur non sapendo come sarà vestita.

Il saggio lo sa dal tepore delle mani.

Ma non potevo e non sapevo stringere le mani per assaporarne il tepore.

 

Ci spiavamo.

Come la notte spia,  gelosa,  l’energia nascente dal nuovo giorno.

Scoprii fogli strappati. Il mio diario violato.  Per oltraggio. Per  la ingordigia di un predatore di gnu.

 

Parole intrappolate si aggiravano decomposte nella tua mente.

Me ne chiedesti conto misurando le pause e le sospensioni.

Le incertezze e l’incredulità  diventarono una narrazione di comodo, da verificare all’infinito.

Mi sentivo sfibrata come un gelso da carta trasformato in un pastone  informe. Sorrisi,  pensando che avrei potuto scriverlo  nel mio scrigno segreto. Cosa diventa una donna  dopo le bastonature, se non una tapa felpata?

Ero incorreggibile o fiduciosa. Cercai  rimedi all’angoscia che mi possedeva. Salii sul palco. Sola.

Mi concessi all’oceano. Ai violini.

Sola mi scatenai in un bolero, lento, passionale, gitano  e trasgressivo. In una ripetizione ossessiva. Come ossessivi  erano i miei  pensieri, cupi e cerchiati.

Mi immersi, poi, in  una lenta danza araba. Per propiziare la primavera, il parto.  le stagioni della terra. I singulti dei suoni somigliavano alle lacrime ferme ai bordi dello sguardo. Sacchi di sabbia agli argini del fiume.

 

Decisi di curarti, coccolarti, comprenderti,  perdonarti.

Ma tu non ti perdonavi.

Avvertii  la tua rinuncia e il tuo dolore. Non potevo strapparteli. Ormai,  ti appartenevano.

Le parole beffarde erano tra me e te rappresentate in una  fissità di gesso. Baciavo un viso freddo. Deforme come una maschera funeraria di cera, dissolta.

Eri altrove. Irraggiungibile. Ormai.

 

Ho sorriso. Ho sempre sorriso. Ho continuato a sorridere.

Lui non voleva. Non mi vedeva.

Io! Io, vedevo il suo dolore. 

 

Ho modellato fiori di carta, ornato il desco.

Fiori, ad intenerire, indugiare sull’amore possibile dei gesti, degli sguardi, sul miracolo delle particelle dell’infinito, finito, nella stanza silenziosa.

I fiori sono senza sangue, senza vene, senza viscere, senza passato, senza futuro.

La stanza risuona di parole che rimbalzano, si schiantano, alle pareti.

I fiori mancano di latte materno, latte e miele o latte e fiele, poco importa; mancano del cordone, mai reciso.

I fiori di carta, omaggio al nulla, crepitano grigi di polvere.

Mani lontane accarezzano, lente, ondulate, danzanti. Come a trattenere e inseguire la marea. Ormai,  stemperato ogni rimpianto.

Domani, di nuovo, fiori di carta; al mio desco.

 

 

pubblicato in data 4 novembre 2013 

 

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ultimo aggiornamento/pubblicazione il 10 gennaio 2019